Steven Paul Jobs (Michael Fassbender) è forse, nel modo più assoluto, l’icona della modernità. Ma quella che i più conoscono come una storia fatta di sfolgoranti luci nasconde invece una quantità inimmaginabile di tetre ombre.
E’ innegabile, Steve Jobs ha rivoluzionato le nostre vite. L’abbandono dei tasti fisici, lo sconvolgimento del concetto di telefonia, il rinnovamento di un’idea di personal computer che sembrava, verso fine millennio, divenuta monopolio esclusivo di Microsoft. La figura dell’inventore californiano ha sfiorato, dopo la morte avvenuta nel 2008, la mitizzazione: tutti si inchinavano al genio che aveva saputo risollevare Apple e aveva riportato l’azienda di Cupertino ad imporsi nuovamente sul mercato, tutti si ispiravano a Steve Jobs, tutti si riempivano la bocca di stay hungry, stay foolish in ogni ambito della vita associata, dalla politica, all’economia, ai giovani. Il “fenomeno Apple” ha investito il mondo come un turbine, il Mac e l’iPhone sono diventati un vero status symbol, qualcosa che trascende dal concetto stesso di prestazioni tecnologiche, componentistica, effettivo bisogno dell’oggetto in sè. Questo perché Steve Jobs non ha avuto il merito soltanto di creare prodotti sì funzionali ma esteticamente gradevoli, ma è stato soprattutto in grado di creare un prodotto-simbolo. Jobs è stato un imprenditore, un inventore, un genio e un informatico. Ma prima di tutto ciò è stato un grandissimo venditore.
Proprio su questo vogliono porre l’attenzione Danny Boyle, pluripremiato regista di The Millionaire (8 Oscar vinti nel 2009) e del tanto meraviglioso quanto discusso Trainspotting, e Aaron Sorkin, sceneggiatore di film altrettanto blasonati e Premio Oscar nel 2011 con The Social Network. Steve Jobs è una figura controversa di cui spesso si sono dimenticate (o si è fatto finta di dimenticare) vicende personali e lavorative che potrebbero cambiare la concezione che la maggioranza ha dell’ex CEO Apple. Sorkin si ritrova a scrivere una sceneggiatura che ricalca in parte lo stile di The Social Network, in cui veniva fuori un Mark Zuckerberg meschino, traditore e approfittatore, capace di portare al successo una grande idea, partorita però dalla mente di un suo compagno di college. Partendo dunque dall’unica biografia autorizzata di Jobs scritta da Walter Isaacson lo sceneggiatore newyorchese traccia uno sviluppo narrativo connotato da una fortissima teatralità e dalla solita preponderanza di dialoghi potenti ed estesi.
Il film subisce una tripartizione narrativa che si snoda attraverso i tre eventi più significativi della vita di Steve Jobs: il 1984, ovvero la presentazione del Machintosh; il 1988, con l’uscita di Jobs da Apple e la creazione di NeXT e, infine, il 1998 con la reintegrazione di Jobs, la nomina a CEO, la presentazione dell’iMac ed il tanto atteso sfolgorante successo. Le tre presentazioni sono gestite come in una quinta teatrale, con Fassbender a dominare il palcoscenico con le sue ideologie e le sue immutabili convinzioni (fatte di sistema chiuso ed incompatibilità con altri dispositivi), padrone di se stesso e, con il passare del tempo, del pubblico a cui si rivolge. I tre eventi sono intervallati dalla preparazione che porta ad essi, preparazione altalenante tra il lavorativo ed un turbolento aspetto familiare, con una figlia che Jobs rifiuta categoricamente di riconoscere ed un rapporto con i colleghi via via deteriore, con la sola Joanna Hoffman (Kate Winslet) capace di stargli vicino, sopportarlo, aiutarlo e sostenerlo.
Alla narrazione però si preferisce, appunto, il dialogo. Gli intermezzi tra le presentazioni non sono scorrevolmente narrati ma si esauriscono nei numerosi confronti verbali tra i protagonisti. Alla lunga ridondanti e pesanti, benché di qualità, compassano inevitabilmente il film trovando solo in parte una valvola di sfogo nei tre eventi significativi della pellicola. Le interpretazioni magistrali di Fassbender, incredibile sia nella resa visiva che in quella recitativa, e di un’altrettanto eccellente Kate Winslet in un ruolo di supporto non sopperiscono alle evidenti mancanze. Ben girato, veritiero e coerente, Steve Jobs sembra costantemente mancare di una capacità narrativa tale da calamitare l’attenzione dello spettatore. I dialoghi su cui Sorkin punta tanto risultano verbosi e troppo, troppo estrinseci rispetto all’intreccio, tanto da sembrare corpi estranei. Malgrado si siano fatti enormi passi avanti rispetto al Jobs di Stern con Ashton Kutcher, che sostanzialmente si limitava a ricalcare la falsa immagine mitica di Steve Jobs assimilata dall’immaginario collettivo, senza nemmeno approfondire degnamente l’aspetto psicologico, lo Steve Jobs di Boyle spreca forse la miglior interpretazione possibile dell’ex-CEO perdendosi in una sceneggiatura labirintica dalle evidenti scarse tendenze alla narrazione, cercando di applicare una teatralità inadeguata ad un genere dai canoni ormai affermati (ed abusati) come quello del biopic. Steve Jobs ha avuto una vita controversa ma esaltante ed appassionante. E’ davvero possibile esserne riusciti a trarre un film così noioso?
Scheda film
Titolo: Steve Jobs
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Aaron Sorkin
Cast : Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels, Katherine Waterston, Michael Stuhlbarg, Perla Haney-Jardine, John Ortiz, Sarah Snook, Steven Wiig
Genere: Drammatico, Biografico
Durata: 122′
Produzione: Legendary Pictures, Cloud Eight Films, Decibel Films, Management 360, The Mark Gordon Company, Scott Rudin Productions
Distribuzione: Universal Pictures Italia
Nazione: USA
Uscita: 21/1/16
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