Dovevamo aspettarcelo che prima o poi Matteo Garrone si sarebbe avvicinato alla fiaba italiana per eccellenza, il Pinocchio di Collodi. La conferma l’ha data al Giffoni Film Festival, dove gli è stato consegnato il premio Truffaut. E attendendo l’inizio delle riprese, previste per la primavera prossima i provini continuano. Si cerca in tutta Italia il piccolo attore protagonista, e sono già iniziati i test per quelli che saranno gli effetti speciali. Il più artigianali possibile, assicura il regista, in linea con la tradizione del cinema e lontani dalle grandeur computerizzate hollywoodiane”.
Al festival salernitano ha incontrato i ragazzi e cercato di spiegare loro quello che è stato il suo percorso, coinvolto dalla loro energia e passione.
Credi che “Il Racconto dei racconti”, tratto da un testo del 600 di Giambattista Basile, abbia buone possibilità per la corsa agli Oscar?
Il film, essendo in lingua inglese e con attori stranieri non potrà rappresentare l’Italia. Parteciperà per tutte le categorie, ma non credo comunque sia un film da Oscar, dove l’entità degli investimenti conta molto. Mi auguro che vinca qualcosa per i costumi, o le scenografie.
Nel “Racconto” hai espresso pienamene la tua anima di pittore…
Mi capita sempre più spesso di incontrare persone che mi fanno notare che “Il Racconto dei racconti” è molto diverso dagli altri film che ho girato. Forse è vero, ma a me sembra che comunque il mio percorso pittorico sia già visibile nei miei primi film, come “L’Imalsamatore”, Anche Gomorra, apparentemente girato con linguaggio più documentaristico, nasce da una successione visiva di immagini, faceva parte di una metarealtà, o quasi della fantascienza per certi versi. Il mio è un territorio visivo e visionario, e anche il “Racconto” ha un punto di partenza pittorico, e poiché il libro è puro intrattenimento mi è sembrato il testo giusto per raccontare storie che per intrattenere devono essere prevalentemente visive.
Prevedevi che la serie di Gomorra avrebbe avuto un tale successo?
Quando nel 2006 ho incontrato l’autore Roberto Saviano, che aveva pubblicato il libro da poche settimane, prima che divenisse un best seller, la prima cosa che dissi al produttore fu che, secondo me, per riuscire a rendere al meglio quel testo, sarebbe stato più intelligente fare una serie televisiva. In realtà io la volevo fare, ma nel 2006 non c’erano ancora i presupposti. Oggi le serie hanno un grande successo di pubblico, muovono enormemente il mercato, e quindi sono stati fatti passi da gigante. Quando mi hanno proposto di dirigere la serie per me non aveva più alcun senso. Non aveva senso, dopo aver girato “Gomorr”, tornare sui luoghi del film.
Ti sei ritrovato spesso a girare a Napoli o nelle periferie. C’è un motivo particolare?
No, è stato più che altro casuale. Napoli ti offre una ricchezza di possibilità dal punto di vista espressivo, un’abbondanza di immagini, di facce e di caratteri. Per “L’Imbalsamatore”, ad esempio, ho scelto di ambientarlo a Villaggio Coppola, un frazione di Castel Volturno perché mi permetteva un particolare tipo di astrazione, poteva essere un luogo non luogo.
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