L’ingegneria genetica e la robotica hanno subito uno sviluppo tale da poter permettere agli umani di potenziare varie parti del proprio corpo. Gli ultimi progressi, benché ad uno stato sperimentale, consentono ora anche il trapianto di cervello, così da garantire una sopravvivenza umana che vada oltre i limiti fisici. Mira Killian Kusanagi (Scarlett Johansson) è uno di questi ibridi, nati da cervello umano e corpo sintetico. In un mondo futuristico, cibernetico e dominato dalla tecnologia sembra non esserci spazio per il passato di Mira, un passato a cui non ha mai spesso di pensare e che vuole assolutamente scoprire.
Dopo il ritorno in auge della serie animata e dei due lungometraggi, Ghost in the Shell si è a lungo preparato per l’approdo nelle sale cinematografiche. Sfruttando un trend molto incline all’adattamento su grande schermo (stiamo pur sempre parlando di uno dei rari casi in cui l’anime supera, e di gran lunga, la controparte su carta) Rupert Sanders dirige una combattiva Scarlett Johansson, ancora una volta in un ruolo da eroina dal combattimento facile (che ricalca le sue recenti interpretazioni in Avengers e Lucy)
Senza mai brillare più di tanto in produzioni che poco possono fare oltre che valorizzarne l’assoluta bellezza, l’attrice newyorchese insiste nel voler percorrere la strada dell’action, ma stavolta lo fa pestando i piedi a qualcosa da cui il fandom Marvel non può assolutamente salvarla. Ghost in the Shell infatti nasce, in senso assoluto, come un’opera matura e riflessiva, chiaramente improntata su un registro ideale che vuole trascendere dalla propria anima action e concentrare l’attenzione su una perversione tecnologica inarrestabile (e tutte le inevitabili conseguenze che ne derivano). Messaggio mal recepito da produzione, sceneggiatura e regia, le quali si ritrovano ben presto ad armeggiare con un prodotto che, a livello di profondità, non impiega molto a mostrare tutti i suoi limiti.
Dalle buone premesse iniziali (di cui avevamo parlato proprio qui, analizzando i primi quindici minuti della pellicola) ci si aspettava un lavoro molto più maturo che fondasse solide radici in tutti gli interessantissimi temi su cui spazia l’universo di Masamune Shirow, da materie prettamente fantascientifiche (cibernetica, robotica, enhancement, androidi) ad altre legate al misticismo e all’animismo (religione, aldilà, anima, bioetica). Ghost in the Shell invece, dopo averci fatto assaporare qualche nozione base di fanta-ingegneria genetica e aver gettato una superficiale infarinatura di ologrammi in una città fantascientifica e modernamente orientaleggiante e palesemente ispirata a Blade Runner, abbandona se stesso in una spirale di banalità sci-fi.
Al di là del suo scoppiettante inizio Ghost in the Shell fatica a prendere ritmo e vigore, risultando sempre piuttosto appiattito sulle ridondanti vicende personali della protagonista. Una riflessione che avrebbe potuto estendersi al rapporto corpo-anima, ad un concetto di moderna reincarnazione e alla perversa deriva di un progresso inarrestabile viene ridotta a nient’altro che un visto-e-rivisto senso di vendetta. Mira non è un protagonista di Ghost in the Shell, perché Mira è semplicemente Scarlett Johansson che interpreta Lucy e che, a sua volta, è trasportata di peso in una pellicola fantascientifica (viene da sè che il complesso di tutte queste variabili dà un risultato facilmente immaginabile). La Johansson e ciò che la circonda non rendono giustizia a ciò che si vuole raccontare. Esistono migliaia di action-movie fantascientifici di questo livello e, se davvero se ne fosse voluto creare un altro ancora, non sarebbe stato necessario ispirarlo a Ghost in the Shell (e probabilmente non saremmo qui a giudicarlo negativamente).
Ghost in the Shell – Recensione
5
voto
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