Ottant’anni fa, esattamente il 4 giugno del 1937, il cinema parigino Mariveaux ospitava la prima di un capolavoro della cinematografia mondiale, la vetta più alta raggiunta dal regista Jean Renoir. “La grande illusione” arrivava in un momento critico della storia europea, con Hitler cancelliere tedesco e a soli due anni dall’invasione della Polonia. Non stupisce dunque che a un grande film così profondamente umano e pacifista la quinta edizione del Festival di Venezia (dove era stati istituita la Coppa Mussolini) avesse preferito “La grande imperatrice” di Herbert Wilcox.
La grande illusione è uno di quei capolavori senza data di scadenza, che ruota intorno a problematiche universali da sempre presenti nello spirito e nella storia.
La vicenda si svolge durante la prima guerra mondiale, sul fronte francese, dove l’esercito tenta di arrestare l’avanzata degli austro-ungarici. Il capitano De Boëldieu e il tenente Maréchal sono abbattuti con il loro aereo dall’ufficiale tedesco von Rauffenstein, asso dell’aviazione tedesca, e fatti prigionieri.
Internati in un campo di prigionia si ritrovano di fronte allo stesso maggiore von Rauffenstein, che comanda il lager. Tenteranno un’epica evasione, ma il trasferimento degli ufficiali nel castello di Haut-Kœnigsbourg manderà all’aria il piano. Riusciranno ugualmente a fuggire Maréchal e Rosenthal, in un finale che arriva dritto al cuore.
La grande illusione, dicevamo, è un grandioso e accurato film pacifista, coronato da scene e battute indimenticabili. Come la sequenza in cui Maréchal (Jean Gabin) viene rinchiuso in cella di isolamento e la sentinella ascolta il suo dolore e gli dona un’armonica per salvarlo dalla follia. O come quella in cui una contadina tedesca, Elsa (Dita Parlo), ospita i due fuggitivi, il tenente Maréchal e il tenente Rosenthal (Marcel Dalio) partecipe solo della loro condizione, senza neppure porsi il problema di bandiere e schieramenti.
L’analisi dei personaggi e l’acuta trasposizione della realtà, tuttavia, sono forse il primo valore del film. Le barriere non si tracciano sul campo di battaglia e tra le differenti nazionalità, ma tra le diverse posizioni sociali e il sentimento della vita che queste comportano
L’impossibilità di condividere l’intimo non separa il capitano francese Boëldieu (Pierre Fresnay) dal maggiore tedesco, come ci si aspetterebbe, ma l’aristocratico Boëldieu dal proletario Maréchal. Un senso profondo di appartenenza unisce invece l’ufficiale francese al tedesco von Rauffenstein. Ambedue appartengono allo stesso mondo e ne codividono i valori, ambedue sono permeati da un profondo senso di tristezza unito all’inconsapevole sentore della decadenza della propria classe. Da un senso di morte, anche, che porterà il capitano a sacrificare la propria vita in nome dell’onore, permettendo a Maréchal e Rosenthal di evadere. Indimenticabile la sequenza nella quale von Rauffenstein (Erich von Stroheim, qui all’apice della sua bravura) sacrifica l’unico fiore del castello per onorare l’amico.
La voglia di vivere e la carnalità animano invece il proletario Maréchal e il borghese Rosenthal, che riusciranno infatti a salvarsi affondando i piedi in un’immensa distesa di neve, sul cammino per la Svizzera.
“La grande illusione” riporta alla memoria molti altri film successivi, come “La grande fuga”, “Il buco” e lo stesso “Pane e cioccolata” del nostro Franco Brusati: i lavoratori italiani nelle baracche svizzere, di fronte a un compagno in abiti femminili, hanno disegnato in volto lo stesso turbamento dei soldati francesi davanti a un commilitone travestito da donna per uno spettacolo.
Citazioni inconsce, forse, dovute a quella memoria che risiede nel fondo dell’’anima e che noi chiamiamo “cultura”, condivisione di immagini, di concetti e voli della fantasia.
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