Monda lo annuncia. La Sala Sinopoli è in visibilio. Letteralmente. Te lo aspetti in smocking. In giacca e cravatta. E invece lui si presenta in t shirt a maniche lunghe, placido, quasi timido ma sempre professionale e garbato. Le domande del Responsabile artistico del Festival del cinema di Roma, Antonio Monda, che divide con lui il palco, vertono, come il format degli incontri vuole, sulla sua carriera: si inizia con una sequenza di Donnie Darko, uno dei suoi primi film.
Monda domanda lui circa la popolarità che tra i giovani ha conquistato quel titolo, chiedendo a lui il motivo. Gyllenhall ci riflette un istante, poi risponde: «Credo che il successo di Donnie Darko dipenda dal fatto che nel film esistono molteplici livelli di interpretazione, c’è un aspetto fantascientifico che trovo ancora interessante, anche se, mentre guardavo questa scena, non credevo alla dimensione delle mie guance. Perché Donnie Darko è diventato un fenomeno di culto? Non so lo so, forse era anticonvenzionale, o forse è quello che accade ai film che non hanno successo commerciale.». Poi la star losangelina prosegue: «Uno non intraprende un percorso creativo se non ha l’idea di poter trasmettere qualcosa alle persone. Io dal profondo del mio cuore ci credevo, io metto sempre il cuore in quello che faccio. All’epoca ero giovanissimo, non sapevo nulla del cinema, però credevo molto in questa storia che per me aveva un valore universale perché raccontava il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e poi era insolito trovare un film sui teenager che non parlasse di feste e di baldoria. Donnie Darko era un film che corrispondeva ai miei sentimenti, alle mie inquietudini di allora.». Antonio Monda poi domanda all’attore se c’è un genere cinematografico che ti piace e ti diverte maggiormente. Jake Gyllenhaal replica lui: «In realtà non c’è un genere che m’interessa di più. Sono affascinato dalle esperienze umane, dall’inconscio. Così come quando sogno sempre cose diverse… così vedo il cinema, un qualcosa di molto simile al sogno. Mi piace sperimentare esperienze diverse.».
Su Brockenback Mountain: «Credo che essere diretti da Ang Lee sia il sogno di qualunque attore. All’epoca sapevo che stava lavorando a un progetto e volevo farne parte, la sceneggiatura girava da tempo e, quando l’ho letta, ho pianto. Per Ang tutto si giocava sul trovare la giusta combinazione di attori, molti avevano timore a fare un film così, ma non Heath Ledger e nemmeno io. Molti mi chiedono: eri consapevole di ciò che stavi per fare? Del rischio che stavi correndo? Io non ragiono in termini di rischi. Ho sempre considerato I segreti di Brokeback Mountain una storia d’amore, così l’ho sempre valutata, senza pregiudizi.». Poi una precisazione: alla domanda del Direttore artistico del Festival. circa la frequenza minore o maggiore del rappresentare l’omosessualità sul grande schermo in USA – all’epoca (2005) ed oggi -, Gyllenhaal replica: «Oggi le cose sono cambiate si vedono più storie di amore omosessuale al cinema e in tv, però non è chiaro quello che sta accadendo negli Stati Uniti. C’è confusione, attualmente c’è un degrado culturale, ci sono delle paure, ma questo conferma sempre più le mie posizioni e mi porta a voler raccontare sempre più storie. Comunque credo che questo film abbia contribuito a fare la differenza.».
Monda poi chiede lui circa l’improvvisazione sul set: se ne fa uso o se è incollato al testo. Jake sorride e poi risponde: «Son pronto a fare qualunque cosa, non credo nelle regole, rispetto il testo, ma anche l’attimo. Rispetto i miei compagni di lavoro e il regista. Posso dire di aver fatto film in cui non ho tralasciato nemmeno una parola, una virgola o una pausa, e altri nei quali il testo è stato abbandonato e ne è stata mantenuta l’essenza. In quei casi ho improvvisato. Per me l’unica parola d’ordine è la preparazione, è l’unica struttura alla quale punto, la libertà sta dall’altra parte della disciplina.». Quando arriva il momento di scegliere un film “made in Italy”, Jake ci sorprende: «Il film italiano a cui sono più legato è “La strada” di Federico Fellini, perché fu proprio questo film a convincere mio padre a intraprendere il cammino del cinema. Senza “La strada” io non sarei qui adesso. Mi piace la sua combinazione fra profondo dolore e commedia, e mi appassiona anche che ci siano gli artisti da circo, che appartengono a un mondo in cui mi ritrovo moltissimo.». In conclusione dell’incontro, a precisa domanda del Direttore artistico «Un regista scomparso ed uno ancora in attività con cui ti piacerebbe collaborare?», egli risponde: «Dico Fellini e Pedro Almodovar.». E noi da fan e da cinefili non vediamo l’ora che quest’ultimo suo desiderio divenga realtà!
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