Riko (Stefano Accorsi) trascorre le sue giornate in Emilia tra lavoro e famiglia, affrontando insieme a sua moglie Sara (Kasia Smutniak) una vita che alterna vertiginosamente alti e bassi. Una volta perse le poche certezze che la sua preimpostata esistenza gli offre, si accorge della necessità di prendere in mano una vita che il tempo gli stava lentamente portando via, cominciando finalmente a vivere il Riso che avrebbe voluto essere.
Arrivato alla terza esperienza cinematografica, la maturità regista di Luciano Ligabue passa attraverso Made in Italy, una sorta di rock-opera traslata direttamente dal mondo della musica a quello della macchina da presa. Il tono autobiografico delle opere del rocker di Correggio si riscontra anche in quest’ultima fatica, in cui le vicende prendono a piene mani dalla storia raccontata nell’ultimo omonimo album pubblicato nel novembre del 2016. Se possiamo definire quest’ultimo come un vero e proprio concept disc, viene abbastanza naturale definire Made in Italy come un concept movie.
Basato sulle vicende di Riko, a cui si accenna già nella traccia Mi chiamano tutti Riko, perfetto alter ego del regista. E’ Ligabue stesso a vedere nel protagonista l’essenza di un Ligabue senza la musica, di come sarebbe stato il rocker senza il rock, senza quella che è poi stata ed è tuttora la sua carriera folta di successi. L’impianto narrativo è ben chiaro, non distaccandosi affatto dallo stile delle precedenti opere e riprendendo quel gusto sfrenato per monologhi, assoli, climax di personaggi visti nella loro capacità di estraniarsi e, in tal modo, di raccontare la quotidianità che li circonda.
Funzionale, in questo senso, è il ruolo di Stefano Accorsi (attore che con Ligabue ha già lavorato, con successo, in Radiofreccia). L’impianto teatrale dell’attore bolognese, meno apprezzabile in altri film, si sposa invece perfettamente con lo stile registico del cantautore di Correggio. Le scelte formali restano discutibili, a volte possono risultare stucchevoli nella loro retorica, ma rappresentano una caratteristica che, al terzo film, rimane comunque immutabile. Stride il fatto che si voglia dipingere una vicenda di vita vera, di vita vissuta, inspiegabilmente infarcita di formalismi al limite dell’assurdo, del paradossale, fuori da ogni tipo di aderenza al realismo. I protagonisti, muovendosi in questo mondo, sono sì sinceri ma forse troppo artefatti per risultare veri, genuini. Come se una quinta li separasse dall’empatia dello spettatore.
Luciano Ligabue è un regista molto onesto e, in quanto tale, non vuole proporre qualcosa che vada oltre i suoi schemi cinematografici. Difficile però, vista l’insorgere di una schematica ripetitività, arrivati alla terza produzione, riuscire nuovamente ad innovarsi, soprattutto riproponendo anche un tipo di protagonista dall’acre sapore di “già visto”. Made in Italy vuole raccontare la vita vera con la vicinanza di chi, tra le colline emiliane, ci è cresciuto e si è formato umanamente e artisticamente. La vita vera, però, è molto diversa, lontana dalla retorica, dai monologhi e dalle scenate, ben più aderente ad un’umanità che, almeno in questo caso, sembra annebbiata da un dominante velo di retorica.
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