Il Premio Oscar Alicia Vikander (The Danish Girl) si fa carico dell’enorme responsabilità di vestire i panni di Lara Croft, l’eroina più amata del mondo arcade, nel reboot cinematografico di Tomb Raider, distribuito nelle sale da Warner Bros. Sarà riuscita l’attrice svedese ad essere protagonista di un’origin story degna di nota e a spezzare la maledizione delle pellicole tratte da celebri videogames? Scopritelo nella nostra recensione.
Le seconde possibilità sono ormai all’ordine del giorno nella patinata industria hollywoodiana. Ciò che non ha funzionato la prima volta, o che ha funzionato molto bene ma si è poi affievolito, ottiene sempre una chance per un nuovo inizio. Questo ciclo creativo è stato perfettamente rappresentato dalla proprietà intellettuale di Tomb Raider, lanciata nel 1996 sulla prima, storica Playstation, e che ha innescato un vero e proprio franchise videoludico e due adattamenti cinematografici non particolarmente entusiasmanti: Tomb Raider (2001) e Tomb Raider: La culla della vita (2003), entrambi interpretati da Angelina Jolie. Ci ha poi pensato Square Enix nel 2013 a restituire linfa vitale alle avventure di Lara con un reboot videoludico apprezzato da critica e pubblico, e che si è dimostrato fonte primaria di ispirazione per il film diretto da Roar Uthaug (The Wave).
Il regista norvegese tratta il nuovo inizio cinematografico dell’eroina come una sorta di Batman Begins, mostrandoci una ragazza 21enne, fiera ed indipendente figlia di un eccentrico avventuriero, che non ha grilli archeologici per la testa, non filtra gli eventi con intuito e sarcasmo, e tra una lezione e l’altra all’università, non sa ancora cosa fare del proprio futuro. Con le consegne in bicicletta, in giro per le caotiche strade di Londra, a malapena riesce a pagare l’affitto dell’appartamento che condivide con l’amica Sophie (Hannah John-Kamen). La misteriosa scomparsa del padre Richard (Dominic West) sarà il fattore catalizzante della sua spedizione al largo del Giappone, alla ricerca della leggendaria tomba di Himiko. Scortata dal capitano della nave Lu Ren (Daniel Wu), Lara si addentrerà tra i miti e le leggende che popolano il sinistro villaggio, con outfit già mimetico e capelli legati non ancora intrecciati.
Tomb Raider ha il pregio di essere una pellicola ricca di momenti action, con sequenze catastrofiche letteralmente estrapolate dal videogame di Square Enix, ma il difetto di essere vittima di una sceneggiatura alquanto blanda e ricca di clichè. Alicia Vikander si è allenata duramente per questo ruolo, sottoponendosi ad allenamenti e regimi alimentari ferrei, e pur risultando una Lara Croft più convincente di quella di Angelina Jolie, soffre di una personalità a tratti bidimensionale. Il suo rapporto con il padre non lascia un impatto fortemente emotivo e funge da mero espediente narrativo per la sua evoluzione all’interno del terzo atto della pellicola, dove l’elemento soprannaturale diventa piuttosto comico, pur non essendo stato percepito in tale maniera. Anche il cast di personaggi che la circonda non brilla dal punto di vista recitativo ed il villain interpretato da Walton Goggins si dimostra alquanto fumoso.
In un periodo attuale dominato dal movimento #MeToo, il film di Roar consacra l’attrice svedese come un’eroina che riesce a risolvere i problemi puntando sulle sue abilità intellettuali e non venendo mai oggettivata, ma non riesce a rompere la maledizione degli adattamenti cinematografici tratti dai videogames, finendo per essere un film discreto e nulla di più. Ironico constatare che anche suo marito, Michael Fassbender, non sia riuscito a dare ai fan di Assassin’s Creed (2017) quello che speravano, in un adattamento blando e appena sufficiente. La scena finale di Tomb Raider è un grande omaggio ai fan della saga videoludica e funge da apripista ad un possibile sequel che, qualora dovesse ricevere il via libera dai vertici della Warner, speriamo possa riparare alle clamorose mancanze di un reboot partito con il freno a mano tirato.
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