Dopo il grande successo di Rogue One, Disney e Lucasfilm continuano la scia degli spinoff con Solo: A Star Wars Story, pellicola incentrata sugli anni di giovinezza del mitico personaggio portato alla fama da Harrison Ford. Sarà riuscito Alden Ehrenreich a non scalfire la sua iconica figura, sotto la supervisione di Ron Howard o si sarà ridotto tutto ad una semplice macchietta parodistica? Scopritelo nella nostra recensione
Diciamocela tutta. La saga di Star Wars ha alle spalle una storia sfortunata quando si tratta di portare sul grande schermo le origini di personaggi notevoli. L’intera trilogia prequel, infatti, era stata progettata da George Lucas per spiegare la discesa verso il lato oscuro di Anakin Skywalker ma, a causa di una performance molto blanda di Hayden Christensen, scelte narrative sbagliate e momenti al limite dell’imbarazzo, non tutto è andato per il verso giusto. Purtroppo alcuni di questi problemi sono visibili anche in Solo: A Star Wars Story, pellicola che ha subito una produzione travagliata a causa del licenziamento improvviso di Phil Lord e Chris Miller, rei di aver deviato dagli imput creativi di Kathleen Kennedy. Quest’ultima ha quindi lasciato a Ron Howard, star di Happy Days e celebre regista, l’arduo compito di riportare il progetto sulla giusta traiettoria e di completarlo in tempo, a tal punto da presentarlo in anteprima al Festival di Cannes.
Scritto dal duo padre-figlio composto da Lawrence e Jonathan Kasdan, Solo: A Star Wars Story porta il pubblico sul pianeta coperto di fango Corellia, dove un giovane Han (Alden Ehrenreich) lavora come pedina in una grande organizzazione criminale rubando e concludendo affari per sopravvivere. Mentre il film fatica a trovare un appiglio per reggersi, ci viene presentata Qi’ra (Emilia Clarke), la donna che il nostro eroe ama, e apprendiamo il suo obbiettivo di diventare un giorno il miglior pilota della galassia. Han si ritrova come un grugnito nell’esercito imperiale – combattendo con le unghie e con i denti autorità lungo tutto il percorso – ma ancora una volta l’opportunità viene a bussare. Una fatale introduzione sul campo di battaglia di Beckett (Woody Harrelson), Val (Thandie Newton) e Rio Durant (Jon Favreau) lo collega al mondo del crimine intergalattico, gestito da un gangster di nome Dryden Voss (Paul Bettany), e gli dà la possibilità di dimostrare finalmente che ha quello che serve per diventare la canaglia intergalattica che tutti noi conosciamo.
Il problema di ogni prequel che si rispetti consiste nel creare poste in gioco significative che permettano al protagonista di crescere e sviluppare una propria coscienza. Purtroppo per Alden, pur riuscendo a sfornare un’interpretazione al di sopra delle aspettative, non riesce minimamente ad avvicinarsi ad Harrison Ford e a sorreggere il peso della pellicola in solitaria. Diventando quindi fondamentali gli assist di Donald Glover nei panni di un giovane Lando Calrissian e di Joonas Suotamo in quelli di Chewbacca. Come in molti si aspettavano, Solo: A Star Wars Story risponde a domande che i fan si ponevano da anni, ovvero come era nata l’amicizia tra Han e Chewie, come il primo fosse riuscito ad ottenere il Millenium Falcon e, soprattutto, se la mitica rotta di Kessel in meno di dodici Parsec fosse una semplice diceria oppure no. Ron Howard dimostra di avere grande rispetto verso la saga di Lucas ed infarcisce il film di grandi easter egg, tra cui un cameo di un personaggio che vi farà sobbalzare dalla sedia, ma pecca della mancanza di quel sendo di sacrificio e di “cuore” narrativo che Rogue One era riuscito a portare in scena.
A conti fatti, non possiamo che considerare questo secondo spinoff un esperimento riuscito a metà, quasi un “pilot” per una serie televisiva su Han Solo. L’attore si era lasciato scappare che ci sarebbero stati altri film su di lui e, dato quello che accade nel finale, l’ipotesi è molto vicina alla realtà. Solo: A Star Wars Story è un’esperienza cinematografica di alti e bassi, che però scorre via in maniera liscia nelle 2 ore e 15 di durata. Ne sentivamo il bisogno? Forse no. Curiosi di vedere se i seguiti potranno migliorare i difetti di questo capitolo? Assolutamente si. Ai posteri l’ardua sentenza.
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