Sembra in convalescenza il cinema italiano, almeno dal punto di vista degli incassi al botteghino. Dopo un 2017 in picco, con quasi il 50% in meno per il box office nazionale, quest’anno l’Anica (associazione nazionale italiana industrie cinematografiche audiovisive) ha comunicato che la ripresa c’è, ed è consistente: complessivamente un +40%. E’ mancato il titolo esplosivo, ma i film italiani sono stati tanti, e distribuiti in modo uniforme nel corso del 2018. Occorre tenere poi presente che la concorrenza delle piattaforme come Netflix e di internet la fanno da padrone, e che la pirateria continua ancora a rubare molti incassi al sistema cinema. Quindi le presenze nelle sale non corrispondono al numero reale di spettatori che una pellicola si è guadagnata.
In realtà in titoli usciti nel 2018 sono stati 152, 155 nel 2017 e nella stragrande maggioranza si tratta di film di qualità. La redazione di InsideTheShow ne ha scelti 4 da tenere ben in memoria: Dogman, di Matteo Garrone, Lazzaro Felice, di Alice Rohrwacher, A Casa Tutti Bene, di Gabriele Muccino e Sulla Mia Pelle, di Alessio Cremonini.
A Casa Tutti Bene
Di tanto in tanto Gabriele Muccino si concede qualche trasferta oltreoceano, ma è ormai evidente che, nonostante la fascinazione del cinema e dei grandi interpreti americani, il regista romano si sente più a suo agio in terra nostrana. Con A Casa Tutti Bene, senz’altro tra i migliori film italiani del 2018, Muccino ripropone il terzo capitolo della trilogia ideale costruita intorno a L’ultimo bacio e Baciami ancora. Ancora un’immersione in apnea nello specchio d’acqua della famiglia, ancora un film corale che mette alla berlina una generazione allo sbando. Ma se in L’ultimo bacio i quarantenni in crisi risescono a riemergere dal lago claustrofico dei legami, se in Baciami ancora gli stessi protagonisti cresciuti guadagnano la superficie aggrappandonsi alla boa della genitorialità, in A casa tutti bene è un pozzo buio e senza scampo a intrappolare le vite dei componenti di una grande famiglia allargata. Anche Mucccino è cresciuto, e adesso non tortura più gli attori con la richiesta di una recitazione enfatica, da ultimo respiro prima dell’agonia. Tutto è meno compulsivo, più tranquillo, quasi acquietato, e forse con meno urgenza di vita. L’isola immaginaria in cui si ritrovano i personaggi del film, sulla costa napoletana, è un’ambientazione senza coordinate temporali. “Un’isola che non c’è“, come recita uno dei protagonisti, Stefano Accorsi, poco prima di sedurre l’amica d’infanzia. A invitare tutti i parenti al loro cinquantesimo anniversario di nozze è la coppia dei gentori, una dolcissima Stefania Sandrelli e uno scorbutico Ivano Marescotti. Un’improvvisa mareggiata, metafora del disastro che sta per scatenarsi, costringe il gruppo a rimandare la partenza, e la convivenza forzata porta in bocca sapore di fiele, si trasforma in rabbia e rancore. C’è ormai solo amarezza nei vecchi ragazzi. Disincantati e sconfitti, non hanno più nulla a cui aggrapparsi. Forse saranno le nuove generazioni, gli adolescenti di oggi, a trovare una via di riscatto. (Bianca Ferrigni)
Lazzaro Felice
Prendendo spunto da un autentico fatto di cronaca, in cui una marchesa italiana aveva approfittato dalla semplicità dei contadini e dell’isolamento delle sue proprietà, per costringerli ad una mezzadria fuori dal tempo, Alice Rohrwacher dirige una storia che è una fiaba amara dagli accenti surreali, con alcuni momenti sublimi. Il protagonista, Lazzaro (Adriano Tardiolo) è un ragazzo non ancora ventenne scovato dalla regista in una scuola, con mani da lavoratore e occhi limpidi. Il successo di Lazzaro Felice non è racchiuso in una formula da manuale di scrittura, al contrario, nella sua libertà, nel percorso inaspettato e quasi naïf della narrazione, che parla di ingiustizie sociali ma anche di miracoli. Il momento in cui la musica di un organo in chiesa, inizia a seguire lungo la strada gli infreddoliti ex schiavi, appena cacciati via da un parroco arrogante, ricorda il cinema di Pasolini e quella sua capacità di parlare allo spirito mostrando il corpo. La fiaba, lupo compreso, irrompe nella modernità, per portare “il buono”, “il giusto” fra di noi, spezzando le regole di luogo e l’inesorabilità del tempo. Con Tommaso Ragno, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi e Sergi Lopez, il film ha meritato il premio come miglior sceneggiatura al festival di Cannes 2018. (Emanuela Di Matteo)
Dogman
Il titolo che è stato accolto più favorevolmente nel 2018, e a ragione, è stato senza dubbio Dogman di Matteo Garrone. Ispirato al cosiddetto “delitto del canaro”, fatto di cronaca romana che scosse l’opinione pubblica nel 1988, si sviluppa intorno al personaggio di un piccolo uomo mite, interpretato da Marcello Fonte (anch’egli rivelazione dell’anno appena concluso). Marcello vive in una una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l’unica legge sembra essere quella del più forte. Matteo Garrone sceglie di andare oltre la cronaca e costruisce il suo personaggio con intrenzioni antropologiche, un uomo gentile che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l’amore per la figlia Sofia, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere. Garrone insiste sulla diversità fisica tra i due: piccolo e asciutto Marcello, enorme e animalesco l’ex pugile. E ce li mostra quasi sempre in campo insieme, oppure nei controcampi, inquadrati alla stessa distanza. I cani che il piccolo uomo ama sono testimoni involontari della bestialità umana e un’immagine simbolica dell’insopprimibilità dell’istinto. La brutalità che esplode nel finale è cruda e cieca e non ha neppure il sapore della vendetta o dell’esasperazione. Lascerà posto solo a un senso di sconfitta senza speranza. Al Festival di Cannes il film ha ricevuto un’ottima accoglienza, e Marcello Fonte è stato premiato come miglior attore. Successo e riconoscimenti anche all’European Film Awards e ai David di Donatello, dove ha fatto man bassa dei premi più importanti.
Sulla Mia Pelle
ll regista e autore della sceneggiatura Alessio Cremonini sceglie di raccontare la vicenda di Stefano Cucchi, morto nel 2009 durante la custodia cautelare a Regina Coeli, attraverso la ricostruzione degli ultimi sette giorni di vita del 31enne romano. Una vicenda assurda resa sullo schermo con sobrietà e rigore. La lunga notte dell’arresto, del pestaggio, dell’odissea in manette di Stefano Cucchi hanno quasi il sapore di un percorso attraverso le tante stazioni di un via crucis carceria. Sono la pietà, la condivisione di quel dolore, la rabbia per la disperazione introvertita di Stefano che gli impedisce di chiedere giustizia a voce alta, a trafiggere lo spettatore. Tanti sono gli elementi che concorrono al raggiungimento di questo risultato. A cominciare dall’interpretazione di Alessandro Borghi, che ha compiuto uno straordinario lavoro su se stesso. Per questo ruolo l’attore è dimagrito di 18 chili e ha trovato una chiave di lettura del personaggio modificando la propria voce fino a farla divenire uno strumento psicologico, in grado di permetterci di comprenderne la fragilità E poi la fotografia, quel filtro bluastro che ci restituisce degli interni indifferenti all’elemento umano, le brevi carrellate sulla muta nudità dei muri opachi della prigione. arebbe tuttavia sbagliato considerare Sulla mia pelle un film schierato, che intende a tutti costi trascinare il pubblico dalla parte del protagonista. Quella di Cremonini è un’opera onesta, che non intende fare dei carcerati le vittime e dei carabinieri i carnefici.Il film non strizza l’occhio a nessuno, i carabinieri non diventano i cattivi e neanche la figura di Stefano ne esce santificata. La pellicola narra in modo asciutto e puntuale la vicenda, e la violenza è esclusa. Anche la scena del pestaggio si risolve con una semplice porta chiusa a lato di un corridoio. Semmai sono l’indifferenza e il silenzio a essere messi sotto accusa, insieme alla disumanità di una burocrazia che tutto appiattisce e calpesta. I genitori di Stefano apprendono della sua morte della notifica per l’autopsia, dopo che la loro richiesta di vistare il figlio è stata più volte respinta a causa di un’autorizzazione del magistrato che si scontra con gli orari del carcere. E si divora i pochi giorni che ancora rimangono da vivere a Cucchi. (B.F)
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