Il “lavoro decente” e il confine tra la lavoro e vita sociale
Durante la Conferenza mondiale del Bureau International du travail del 1999 fu definita la categoria di “lavoro decente”, per osteggiare i rischi della precarizzazione persino nella vita privata delle persone. Il lavoro decente contempla aspetti molteplici tra i quali il fatto di essere svolto in condizioni ambientali adeguate, in tempi e luoghi adatti, essere retribuito in maniera dignitosa, apparire relativamente stabile nel tempo e, in una prospettiva psicologica rilevante, apparire a sostegno della crescita piuttosto che del consumo delle qualità dell’individuo. Ma il rischio che le condizioni sociali corrodano la qualità della vita del singolo è palesato dalla scomparsa del confine tra lavoro e vita sociale, condizione che rende più incerti anche i confini tra capacità personali e lavorative. I tempi di vita e quelli del lavoro si fondono e le persone sentono di dover far valere le loro abilità, vere o presunte, nelle relazioni interpersonali. Lo scenario psico-sociale è anche quello descritto dal film Il capitale umano (2014) di Paolo Virzì, regista per eccellenza della commedia, che con il suo undicesimo lungometraggio cambia passo e ambienta in Brianza il romanzo di Stephen Amidon per descrive un mondo che, come dice la moglie dell’algido finanziare Bernaschi, “ha scommesso sulla sconfitta dell’Italia. E ha vinto”. Lo scontro generazionale è acceso e l’età è un confine per riconoscere responsabilità: quelle dei padri che hanno tradito qualunque ideale in nome del denaro e le cui azioni finiscono inevitabilmente per far sentire le proprie conseguenze sugli altri membri della famiglia.

Il capitale umano, di Paolo Virzì
Se si può allora parlare ancora oggi di alienazione, ha senso farlo parlando di “corrosione del carattere”, in un sistema totalizzante e onnivoro che ingloba la personalità. Per descrivere in modo paradossale il contesto, Virzì sceglie di raccontare il mondo degli speculatori e tutto quello che sta attorno a loro: lo scenario è vastissimo e tocca differenti ambiti e gerarchie. Ne Il capitale umano, i maghi della finanza promettono all’investitore che egli guadagnerà il quaranta per cento dei suoi risparmi ma ciò è soltanto una finzione, un inganno. Hanno già previsto di mangiarsi il capitale e la vita dell’investitore, sovente già indebitato. Sono loro, gli speculatori, che hanno già previsto con un algoritmo quando costa la morte del raggirato, ed è questo il “capitale umano” del titolo, il rimborso agli eredi quale costo dell’intera operazione. Dino Ossola è un immobiliarista sull’orlo del baratro che decide di investire settecentomila euro che non ha, facendoseli prestare. Ossola è interpretato da Fabrizio Bentivoglio che disegna una figura patetica, tragica e ordinaria, controcanto dell’algido finanziere interpretato da Fabrizio Gifuni, entrambi corresponsabili della disfatta umana e sociale raccontata da Virzì in un affresco polifonico in cui vittime sono anche persone innocenti come il cameriere della cena che torna a casa in bici e viene investito da un Suv, oppure i figli che si spengono sotto le aspettative dei padri, deprivati di speranze e resi inoffensivi da un lusso che non gratifica ma svuota di senso. Le donne sono più consapevoli e disinvolte, anche se nemmeno loro sanno sempre sottrarsi alle lusinghe di una condizione sociale che promette e non mantiene in termini di serenità e gratificazioni profonde. Un disegno in cui non esistono soltanto “buoni” e “cattivi” ma persone che si assumono o non si assumono la responsabilità sociale dei loro gesti.

A tempo pieno, di Laurent Cantet
La complessità delle relazioni
Non ci sono ruoli netti e precisi, nessun buono e nessun cattivo, anche in A tempo pieno (2001), l’opera del regista francese Laurent Cantet che prosegue l’attenzione nei riguardi del mondo del lavoro. Il suo film, come il precedente Risorse umane (1998) – rappresentazione lucida di una fabbrica dei nostri giorni in cui si dipana il complesso gioco delle parti tra lavoratori, mediatori e imprenditori – e come il successivo La classe (2008) che vincerà la Palma d’oro al Festival di Cannes, è uno scandaglio profondo nella complessità delle relazioni. Il punto di vista, in A tempo pieno, è però più intimo, soggettivo, a tal punto da poter apparire ambiguo. Le bugie che il protagonista si inventa non rappresentano un gesto da condannare, sono una manifestazione psicologica da osservare e valutare. Ispirandosi alla vita vera di Jean-Claude Romand, finita rovinosamente dopo diciotto mesi di bugie, il film racconta l’agonia di un consulente finanziario che perde l’impiego e non trova il coraggio di riferire l’accaduto alla moglie e ai tre figli, ma si inventa una vita parallela fatta di trasferte di lavoro; per garantire il tenore di vita ai suoi cari, convince gli amici a prestargli dei soldi nella prospettiva di investimenti fantomatici. Il consulente finanziario licenziato, alla deriva, allucina una vita differente e compie gesti irresponsabili; è un disperato, descritto con profonda umanità e attenzione dal cineasta attento alle ragioni che possono condurre un individuo a fingere e a mentire. Dietro il volto dell’interprete Aurélien Recoing (Vincent), si esprimono le ansie e i comportamenti di un uomo che non riesce più ad avere il controllo sulla sua vita, e la mascherata che inscena è una drammatica strategia di sopravvivenza che lo porta a sostituire, all’angoscia di un lavoro che lo obbligava a comportarsi in un certo modo, un’angoscia ancora più sconfortante. Il titolo originale del film è L’emploi du temps, e il film ci racconta propriamente un caso di inflazione dell’ansia lavorativa nella vita quotidiana, lo sconfinamento continuo che il lavoro richiede nella dimensione umana e relazionale. Ogni ambito e ogni spazio viene condizionato dal lavoro. La dimensione familiare e quella del tempo libero sono dominati dall’inquietudine che il lavoro determina. Nel descrivere un personaggio che vaga per le sale d’attesa fingendo con se stesso di avere nuovi contatti di lavoro, Cantet descrive una crisi in profondità, la figura di un uomo ambizioso che non riesce a parlare con nessuno. Ma per Cantet le ambizioni del suo personaggio e il silenzio attorno a lui sono un esito sociale, non una condizione psichica che l’individuo vive naturalmente. Disabituato a relazioni profonde, Vincent vive stati di disagio che non sa comunicare, e si confida solo con Jean-Michel che, anche lui, vive nell’ambiguità, e, più di lui, aggira con successo le regole dell’apparenza facendo il contrabbandiere. Per Vincent le persone attorno sono dei perfetti estranei e l’estraneità è una condizione che toglie senso, sfibra e innesta un meccanismo di fuga dalle relazioni. “Adoro guidare. Mi accendo una sigaretta, ascolto la musica e non devo parlare con nessuno. A volte, dopo aver fatto più di duecento chilometri per arrivare nel luogo in cui avevo un appuntamento, tiravo diritto e proseguivo sull’autostrada. Non volevo più scendere dalla macchina, mi diventava insopportabile l’idea di dover incontrare qualcuno”.

In guerra, di Stéphane Brizé
Il ruolo astratto del lavoro nelle società moderne
Cantet sottolinea l’aspetto astratto che il lavoro ha assunto nelle società moderne, nelle quali si lavora e si ha un ruolo sociale unicamente per produrre un prodotto e identificarsi con il ruolo che la catena produttiva designa. Una costrizione psicologica che non fa sconti e che nel film offre lo spunto per la rappresentazione degli spazi, così importante nella resa espressiva dell’opera. L’utilizzo della luce, ad esempio negliambienti del Palazzo delle Nazioni Unite in cui Vincent si aggira, restituisce l’immagine di un luogo virtuale, finto come gli ambienti degli spot pubblicitari, perfetto nella sua aderenza al mondo immaginario del personaggio. Realtà e finzione sono ribaditi dal gioco di riflessi sui vetri, dove il doppio simbolizza lo statuto di falso e illusorio. Doppio binario, tra realtà e finzione, che condusse il vero Jean-Claude Romand verso una fine drammatica, mentre Vincent, nella dimensione di rarefatta irrealtà che attraversa, ci fa riflettere su quella stessa superficie di stereotipi che lo circonda. Cantet ci porta a pensare a come l’aspetto moderno degli spazi lavorativi finisca per somigliare a tutti gli altri, da quelli dedicati alla famiglia a quelli del tempo libero. L’uomo finisce per adeguarsi a questa finzione, che gli è in fondo richiesta già nella quotidianità ordinaria. Un film attento a cogliere, con i silenzi e le lunghe inquadrature, i tormenti sotto la pelle di un individuo che vive il dramma di un’identificazione non risolta e di un conflitto con il padre, depositario di una cultura che considera soltanto gli aspetti economici della vita, gli unici che per la sua generazione sembrano avere valore. L’illusione e il virtuale, nel film di Cantet lasciano per fortuna il passo alla disamina profonda delle relazioni, e l’impiego del tempo può declinarsi in modi meno svilenti per l’individuo (e per chi lo circonda). Emerge attorno alla metà degli anni Sessanta dello scorso secolo la ricerca sul concetto dell’equilibrio vita-lavoro; proprio in quel periodo gli studiosi hanno indagato le richieste conflittuali che le persone sperimentavano nel tentativo di bilanciare la propria vita professionale e privata. È difficile definire l’equilibrio vita-lavoro perché ogni individuo conserva la propria opinione su come bilanciare questi due aspetti della propria esistenza e i criteri mutano al variare dei bisogni della persona. L’equilibrio è una questione di compromesso, non un fatto ideale, riguarda il livello di controllo che le persone hanno sui tempi, luoghi e modalità di lavoro. Si raggiunge quando il diritto dell’individuo a una vita piena dentro e fuori il contesto di un’occupazione retribuita è accettato e rispettato come norma, per il beneficio reciproco dell’individuo, dell’impresa e della società.
Il cinema restituisce la percezione del disagio dei lavoratori degli anni 2000

Io, Daniel Blake. di Ken Loach
La convergenza di recessione e bolla immobiliare ha causato una situazione che dalla metà degli anni Ottanta agli anni Novanta, così come oggi, continua a costringere moltissime persone a svolgere molteplici attività per sopravvivere – finanziariamente e psicologicamente -. Viviamo nell’era del lavoro multicommittenza, cioè vengono svolte contemporaneamente differenti attività per diversi datori di lavoro, al posto di una sola occupazione per un solo committente. La settimana lavorativa risulta così un puzzle di lavori part-time che comportano spesso l’impiego di un maggior numero di ore rispetto a quello abituale. Assieme all’esplosione della tecnologia nei tardi anni Novanta, questo stato di cose ha condotto a un modo di lavorare totalmente nuovo, a cui le persone sono state spinte ad adattarsi per uniformarsi alle richieste del mercato del lavoro. L’espansione di internet e della tecnologia dell’informazione, della banda larga e dei telefoni cellulari, ha un impatto stravolgente sulla nostra vita e sul mondo del lavoro determinando stress, sovraccarichi di lavoro e disequilibrio costanti. Il cinema, nei casi migliori, ha contribuito alla percezione del disagio regalandoci ritratti veritieri, come nel caso dei film di Loach o in quelli della Comencini (Mi piace lavorare) e di Cantet. Sequenze e immagini che raccontano il fantasma di un equilibrio che la vita e il lavoro ridefiniscono giorno dopo giorno.
L’esigenza di un’etica sociale
Un cineasta come Sthéphane Brizé, con La legge del mercato (2015) e In guerra (2018), ci ricorda infine l’esigenza di un’etica sociale, affinché la vita dei lavoratori non sia affidata ai capricci del mercato finanziario secondo un frainteso senso di globalizzazione deprivato di etica sociale. Il metodo di Brisé è un lavoro rigoroso con interpreti che, a fianco del prediletto Vincent Lindon, sono veri protagonisti della realtà, come i sindacalisti ne In guerra o i dipendenti del supermercato in La legge del mercato. Ed è un lavoro sulla quotidianità di individui le cui storie si intrecciano con quelle dell’azienda che, nel recente In guerra, in gergo aziendale viene “delocalizzata” ovvero chiude i battenti in Francia per spostarsi in Romania, abbattendo costi e aumentando i profitti, con la conseguenza di lasciare a casa tutti i dipendenti. Ne La legge del mercato, per il cinquantunenne con figlio disabile che viene lasciato a casa e poi diventa sorvegliante del supermarket, i dilemmi morali hanno il compito di mostrare cosa è giusto al di là della formalità astratta delle leggi. Ciò che è giusto permane nel tempo ed è sentito come vero, le leggi invece cambiano. È giusto allora denunciare chi ruba non per vizio ma per necessità, quando poi la legge può essere ingiusta e ripercuotersi contro chi non ha da mangiare per cause di cui non è responsabile? Brisé evita la demagogia, il suo sguardo è preciso, va in fondo al senso della lotta nel raccontare, nel suo ultimo lavoro In guerra, il dramma di chi si trova dinanzi a una decisione che può cancellare il suo futuro.

La legge del mercato, di Stéphane Brizé
Questa volta Vincent Lindon interpreta un agguerrito rappresentante sindacale che Brizé affianca a veri sindacalisti, ottenendo un intreccio tra “finzione” e realismo che rispecchia anche lo stile realistico, teso a contaminare e sovrapporre falsi servizi televisivi con realistiche discussioni sindacali. La lotta è contro il padrone di una fabbrica francese, un tedesco che ha deciso di chiudere i battenti lasciando a casa gli operai contraddicendo gli impegni assunti. Sincerità e determinazione di un cinema che esprime il senso umano e sociale del lottare per resistere umanamente. “Nella nostra società ci distinguiamo per il nostro impiego. Nel momento in cui ne veniamo privati veniamo spogliati anche del nostro ruolo sociale. Allora il mondo comincia a subire inevitabilmente una serie di disfunzioni. È responsabilità e compito di un regista diventare portavoce di un sentire e di una sofferenza psicologica collettiva”. In guerra mette in chiaro che i lavoratori, da soli, possono fare ben poco, ma un film può contribuire a diffondere una sensibilità culturale. Nel racconto, per giustificare la delocalizzazione e il licenziamento collettivo viene detto ai lavoratori che l’azienda vive un problema di competitività: gli operai vengono messi in una condizione di debolezza perché sembrerebbe responsabilità loro se non producono abbastanza in fretta. Competitività è proprio il termine utilizzato da una responsabile delle risorse umane (che non compare accreditato nel film) per giustificare il licenziamento. I lavoratori si sacrificano e i profitti aumentano, ma i proprietari della Perrin Industries decidono comunque di chiudere per delocalizzare dalla Francia alla Romania. E le parole nel film di Brizé identificano precisamente l’utilizzo di una strategia per la quale 1100 persone, che rifiutano il licenziamento collettivo, si impegnano in settimane di lotta sperimentando umiliazione e disperazione. Come a dire che il lavoro, nella società attuale, è il tema centrale del dibattito.
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