Diceva di essere sempre stato un pittore perché non sapeva fare altro. Vincent Van Gogh pensava questo di se stesso. E il regista Julian Schnabel ce lo presenta così, come uno uomo fragile e tormentato dalle sue visioni, inorridito dallo spettro della sua follia. Un uomo attraversato da un misticismo sincero eppure disturbato dal tarlo della ragione.
E’ la storia di una solitudine immensa che tutto divora, quella proposta dal regista in Van Gogh Sulla soglia dell’eternità (At Eternity’s Gate). Schnabel, che già aveva diretto un altro ritratto d’artista, Basquiat, nel 1996, sceglie di raccontare solo gli ultimi anni di vita del pittore olandese, dal suo arrivo ad Arles, nel Sud della Francia, nel 1888, alla morte tragica e misteriosa nel 1890, periodo nel quale dipinse le sue opere più conosciute.
Gigantesca l’interpretazione di Willem Dafoe, che per questo ruolo ha ricevuto la Coppa Volpi a Venezia. I tanti primissimi piani ci regalano la sua faccia disperata, commovente, densa di colori viscerali come la tavolezza del pittore. E questo sarebbe già in sé un motivo valido per vedere il film. L’altro è la visione personale del regista, la sua sensibilità verso la tragedia interiore di Vincent, la capacità dello script di spiegare in modo denso ma chiaro la ragione dell’arte e in particolare di quella di Van Gogh. Non a caso anche Julian Schnabel è un pittore affermato della scena contemporanea newyorkese, e, a volere essere più precisi, un artista espressionista, proprio quell’espressionismo anticipato da Van Gogh.
La trama
Vincent Van Gogh, stanco della luce negata dal grigio della nebbia e affamato di colori, su consiglio dell’amico Paul Gaugin decide di trasferismi nel Sud della Francia. Per ironia della sorte arriverà ad Arles proprio durante uno degli inverni più gelidi di fine Ottocento. I girasoli, che diventeranno uno dei suoi soggetti preferiti, i girasoli che sono un inno al giallo e trionfano nei vasi e nei campi, ora sono solo corolle uccise dal gelo in una natura devastata. Il cambio di stagione fortunatamente tornerà a celebrare l’intimità e il senso di appartenza alla natura. Sollecitato dall’offerta generosa del fratello di Vincent, il mercante d’arte Théo, Paul Gaugin accetta di andare ad Arles a trovare l’amico. La convivenza tra i due, tuttavia, risulterà un’esperienza fallimentare, sia per divergenze di natura artistica che caratteriale. Gaugin parte lasciando Van Gogh nella disperazione. E’ proprio in quel frangente che Vincent, in un atto autolosionista, compie la celeberrima amputazione dell’orecchio. Verrà ricoverato in ospedale e, una volta, superata la crisi, tornerà ad Arles, per scegliere poi di entrare volontariamente nel nosocomio psichiatrico di Saint Remy. Dopo solo tre giorni trascorsi a Parigi a casa del fratello, si trasferisce definitivamente a Auvers-sur-Oise, dove troverà la morte per un colpo di pistola al ventre esplodo da un ragazzino.
Solitudine, misticismo, follia
Sono due le parole chiave di Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità: solitudine e misticismo. Schnabel sviluppa in modo egregio entrambe. Vincent è disperatamente solo nella maggior parte delle riprese. Solo nella sua stanza, solo davanti alle sue scarpe consumate della miseria, solo e rapito dai paesaggi luminosi davanti al suo cavalletto, solo tra gli abitanti ostili e “maligni” di Arles che lo vogliono internare per sempre in manicomio, solo nell’ospedale psichiatrico dove la terapia sembra consistere nell’immersione in vasche da bagno e docce fredde. Solo anche nelle sue corse attraverso i campi, con una traballante camera a mano che lo insegue riproducendo l’esaltazione febbrile del suo dipingere velocemente e del suo sentirsi parte della natura. Raramente, di tanto in tanto, spuntano un abbraccio del fratello Théo o il sorriso amico del medico Paul-Ferdinand Gachet.
Il misticismo poi, è la campitura del suo sentire, e viaggia parallelamente agli agguati della follia, sempre pronta a spuntare dietro l’angolo. Le numerose soggettive sono lo stupefacente artificio cinematografico che Schnabel sa usare magistralmente. Sono gli occhi con cui Vincent vede la realtà, enfatizzate da una sfocatura che distorce la base dell’inquadratura e filtra la realtà, sia per quanto riguarda la poetica artistica di Van Gogh (segni forti e incisivi realizzati con pennellate cariche di colore, a spiegare quel qualcosa che gli altri non vedono) che lo snaturamento generato dalla schizofrenia e dall’abuso di assenzio.
Vincent era figlio di un pastore protestante, eppure sembrava aver intimamente abbandonato il calvinismo per abbracciare una personalissima fede quasi francescana, umile e frugale, capace di parlare ai fiori, alle piante, a tutte le creature. Illuminante è la risposta che dà al pastore (interpretato da Mads Mikkelsen) quando questi condensa l’assunto che la ricchezza sia indizio della benedizione divina in una domanda: “Credi che Dio ti abbia dato il dono della pittura perché tu viva in miseria?”. E l’artista risponde con candore: “Non l’avevo mai vista in questo modo”.
Anche le musiche di Tatiana Lisovskaya inseguono la distorsione e la dissonanza, con le note metalliche che sembrano emesse da un vecchio pianoforte da saloon. La sceneggiatura è scritta da Schnabel in collaborazione con Jean-Paul Carrière, che dà quell’approccio surreale già utilizzato nella sua lunga collaborazione con Luis Buñuel.
Con ingredienti di questo livello il film è capace di commuovere e farci spiegare le ali insieme a Vincent nel suo volo d’albatro pagato con il dolore. “Un dipinto riuscito porta con sé un bagaglio di distruzione e fallimento. Trovo gioia nel dolore. Il dolore è più potente della risata. Sapete… un angelo non è cosi distante dagli afflitti. E la malattia… a volte ci può guarire. È il normale stato d’animo da cui ha origine un dipinto”.
Data uscita: 3 gennaio 2019
Genere: Biografico, Drammatico
Anno: 2018
Regia: Julian Schnabel
Attori: Willem Dafoe, Oscar Isaac, Mads Mikkelsen, Rupert Friend, Emmanuelle Seigner
Paese: Francia, USA
Durata: 110 min
Distribuzione: Lucky Red
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