Appuntamento del giovedì con i film consigliati dal critico Roberto Lasagna per il fine settimana. Innanzitutto arriva nelle sale la versione restaurata del classico “Gli Uccelli” , di Alfred Hitchcock. Poi due nuove uscite di segno diverso: un film che ci riporta in America Latina e alla vergogna delle torture, “Un notte di 12 anni”, e l’ultima pellicola di Robert Zemeckis, “Benvenuti a Marwen”, ispirato a una storia vera.
Un notte di 12 anni
Uscita: 10 gennaio 2018 – Regia: Alvaro Brechner – Cast: Antonio de la Torre, Chino Darín, Alfonso Tort – Genere: Drammatico, Storico – Distribuzione: Bim Distribuzione in collaborazione con Movies Inspired. Paese: Ungheria, Spagna, Argentina, Francia, Germania – Durata 122 minuti
Dopo ‘Garage Olimpo” di Marco Bechis, modello alto di cinema sui desaparecidos, per fortuna qualche regista torna a raccontare i sistemi di oppressione dell’America Latina, che devastarono la psiche uccidendo persone anche quando – non sempre – rimanevano fisicamente in vita. Nanni Moretti con Santiago, Italia e Alvaro Brechner con Una notte di 12 anni, ci ricordano cosa accadde in Cile e in Uruguay nella seconda metà del secolo scorso. Mentre il regista italiano sceglie la formula del documentario, Brechner ripropone i toni del cinema drammatico di denuncia degli anni Settanta per raccontarci proprio quel periodo, il settembre del 1973 in cui l’Uruguay è sotto il controllo della dittatura militare e i guerriglieri Tupamaros, imprigionati, vengono sottoposti a una tortura che segue le modalità sconcertati di un esperimento scientifico: in una notte d’autunno, nove prigionieri sono portati via dalle loro celle e inseriti in un protocollo militare segreto che durerà 12 anni, quando saranno sottoposti a continui spostamenti a rotazione in diverse caserme e proveranno gli effetti devastanti di una nuova tortura. Un assoggettamento crudele e, va da sé, totalmente asservito alla logica di abbattere le resistenze psicologiche per fare tabula rasa della volontà degli individui, svuotati e uccisi psicologicamente. E’ evidente in Una notte di 12 anni l’intento di omaggiare un cinema politicamente libero, sempre più necessario, e di mostrare il volto crudele di un potere che non ha più l’intento di carpire le informazioni dai detenuti ma soltanto di esprimere abiezione con una violenza sordida, che si nasconde ad esempio quando la Croce Rossa chiede di poter conoscere le reali condizioni dei torturati che ufficialmente sono semplici detenuti politici. Un inferno di degrado che il film ci mostra attraverso 4323 giorni di detenzione in cui sopravvive, come un pallido anelito di umanità, la possibilità di scrivere una lettera d’amore per procura, ma in cui perfino defecare è un atto che può risultare difficile senza un’autorizzazione dall’alto.
Per un cinema di denuncia e impegno civile
Gli Uccelli (versione restaurata)
Regia: Alfred Hitchcock. Interpreti: Tippi Hedren, Tod Taulor, Jessica Tandy, Suzanne Pleshette, Veronica Cartwright. Durata: 120’. Usa, 1963.
Ritorna nelle sale (troppo poche, per la verità), grazie al restauro della cineteca di Bologna, uno dei film più sorprendenti del maestro del brivido. Aspro e crudele, ‘Gli uccelli’ – cinquantesimo film di Hitchcock – fu realizzato senza star, con un montaggio durato sei mesi, con il regista che cambiò la sceneggiatura durante le riprese optando anche per un finale aperto destinato a sconcertare i produttori della Universal succeduti alla Paramount. Fantasia astratta, immersione lenta e silenziosa nei tempi dell’abbandono a una crudeltà che non vuole spiegazioni, ‘Gli uccelli’ fu per Hitchcock anche un film sull’autocompiacimento della protagonista Melanie Daniels. Con il volto dell’esordiente Tippi Hedren, Melanie e’ la figlia di un grosso editore il cui atteggiamento altero viene messo alla prova dall’incontro con il differente e l’imprevedibile: la costa di Bodega Bay in cui gli uccelli attaccano sadicamente anche lei, messasi nei guai per il suo comportamento risentito verso l’avvocato Mitch Brenner che aveva finto di non riconoscerla nel negozio di uccelli di San Francisco. Per la terza volta al lavoro su un testo di Daphne Du Maurier, il regista ci lascia uno dei suoi film più enigmatici, di impatto spettacolare e sul quale le interpretazioni, soprattutto dopo l’accoglienza favorevole della critica francese, fiorirono e non smisero di stimolarne l’interesse. Realizzato dopo ‘Psycho’, in cui la protagonista scompariva a metà film, ne ‘Gli uccelli’ e’ la centralità stessa del protagonista di un film a essere minata; oggi possiamo accogliere l’opera di Htchcock tra i film del disorientamento e anche in questo risiede la sua modernità. Forse la domanda più ricorrente è sempre stata sul senso stesso del film: perché gli uccelli attaccano? È una volontà divina? È la rivolta della natura contro l’arroganza umana? Una dimensione di solidarietà rappresa sembra lasciare emergere nondimeno una prospettiva di sopravvivenza per questi individui che lasciano Bodega Bay dopo l’umiliazione dell’ultimo attacco, con gli uccelli immobili decisi a non punirli ulteriormente dopo che si sono scagliati amoralmente contro donne e bambini. Una convivenza con i mostri si affaccia dunque, siano essi ombre della psiche o condottieri della natura in rivolta contro il dominio impazzito dell’uomo in tempi di atomica e sommovimenti geotermici. La gabbia della cabina telefonica in cui Melanie si ripara dagli attacchi dei volatili, come la doccia di ‘Psycho’, e’ la raffigurazione nuova della gabbia che da sempre ricorre tra le inquietudini esistenziali dei personaggi del regista. Che la gabbia sia qui un involucro trasparente e visibile come un’ampolla di vetro pronta a contenere una sorta di principessa in esilio, lascia pensare anche alla dimensione esteriore che domina il mondo di Melanie, che accenna a un sorriso e a tratti di maggiore umanità soltanto nella seconda parte del film. Tutto concorre a fare de ‘Gli uccelli’ uno dei film più originali del maestro, un cambio di prospettiva che è una sorpresa, anche per l’assenza di musica e le straordinarie sequenze in cui gli uccelli appaiono con ordine silenzioso nello spazio; per gli effetti speciali che, sebbene non possano reggere il confronto con quanto la tecnologia ottenga oggi in termini di verosimiglianza, conservano l’efficacia e la preziosità dello sforzo creativo e di composizione di straordinari talenti. Affresco di stilizzazione visiva e opera della mente ad un tempo, un film da rivedere che rimane anche e soprattutto un’esperienza estetica.
Per riscoprire un classico
Benvenuti a Marwen
Uscita: 10 gennaio. Regia: Robert Zemeckis. Interpreti: Steve Carell, Leslie Mann, Diane Kruger, Merritt Wever. Paese: USA: 2018. Genere: Biografico.Durata:116’.
Il nuovo film di Robert Zemeckis conferma l’originalità di un regista per il quale la magia è nel rapporto personalissimo tra l’individuo e le condizioni in cui egli sperimenta il suo tempo. Il cineasta di Ritorno al futuro questa volta decide di riportare in scena la storia di come Mark Hogacamp, già al centro del documentario Marwencol (2010) di Jeff Malmberg, sia riuscito ad affrontare il trauma e le lesioni subite durante un pestaggio di natura omofoba, e dopo una lunga ma insufficiente riabilitazione che non gli ha riconsegnato né la memoria né la capacita di disegnare, creandosi come terapia artistica un universo parallelo nel prato di casa. Lì, un alter ego di nome Hogie si muove in un villaggio belga fittizio, è un pilota in lotta contro i nazisti e protetto dalle donne di Marwen, che appaiono quali trasposizioni poco mascherate delle donne che hanno aiutato Mark durante la sua terapia. Mentre Mark fotografa le scene che crea in giardino, con bambole eleganti e action figure di soldati, elabora la sua terapia che è insieme una strategia di sopravvivenza ma anche una rivendicazione di immaginario attraverso situazioni che non nascondono il feticismo del personaggio, atteggiamenti e ossessioni espressi verso quel mondo di fantocci che si riproducono sia nella vita privata che nelle sue creazioni artistiche. Nicol, una vicina, aiuterà Mark a liberarsi dalla dipendenza dagli antidolorifici e la loro love story sarà uno sviluppo narrativo importante sebbene anche convenzionale per un film denso di elementi tematici che cerca la leggerezza. Opera giocosa che ci racconta una fuga nella trasfigurazione fantastica della vita, dove trovano spazio l’omofobia, il disturbo post-traumatico da stress e la riflessione sulle dipendenze, in particolare modo quella da antidolorifici così frequente nella società americana. Questioni e temi che si rincorrono nei toni di un film che non può non ricordare lo stile del creatore di Forrest Gump.
Per chi cerca un cinema-terapia
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