Nel rapporto tra cinema e Shoah, Hollywood registra uno dei momenti più intensi con Schindler’s List, di nuovo nelle sale dal 24 gennaio 2019, a 25 anni dalla prima uscita. Spielberg, finanziatore di progetti legati all’attività documentaristica della Shoah Foundation, nel 1993 promosse un ritorno della tradizione drammatica spettacolare, dove il cinema classico, nel recupero di punti di vista unici e particolari come quello dell’industriale “redento” Schindler, è il sapiente rimedio espressivo contro l’inumanità della Shoah, contro l’annullamento delle individualità e l’occultamento della loro visibilità.
Ciò che sorprende nel film del regista – che in quel particolare momento della sua vicenda artistica ha appena terminato la realizzazione di Jurassic Park – è innanzitutto la qualità fotografica così che si può felicemente affermare che in Schindler’s List il volto umano torna ad essere medium, anche grazie ad un’attenzione per i deportati che nel film “risuonano visivamente”, attraverso il ripresentarsi dei sopravvissuti in momenti diversi del racconto fino al clamoroso finale, quella processione dei veri “sopravvissuti” a fianco degli attori che li interpretano, tutti in coda per onorare con un gesto di affetto e riconoscimento la tomba del salvatore Schindler. La partecipazione affettiva è un fondamento strutturale del cinema e il primo piano fissa sul volto la rappresentazione drammatica. In questa modalità di rappresentazione, si concentrano le emozioni, i drammi, gli avvenimenti della società e della natura: si pensi, tramite il sapiente impiego dei primi piani, al confronto di volti, alla lotta spirituale e di coscienze umane nella Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, per rivelare, come un radiografia del sensibile, che il volto è lo specchio di ciò che chiamiamo anima e l’anima stessa è specchio del mondo.
Mondo impregnato d’anima e anima impregnata di mondo
Nel cinema il carattere cosmico della vita interiore si dispiega con i primi piani ma anche attraverso i paesaggi e le descrizioni ambientali, che esprimo gli stati d’animo: mondo impregnato d’anima e anima impregnata di mondo. Schndler’s List è davvero eloquente nel rendere quella che immaginiamo essere l’anima del momento storico devastato dalla Shoah: il dramma sui volti dei bambini e delle donne messe in fila per attendere la morte si riverbera nel loro nome scritto a macchina sui fogli lisi di un contabile e viene a perdersi nell’incomprensione sul volto del nazista Goeth. Qui, più che in altre situazioni, Spielberg mostra di sapere che ad attirare da sempre le folle al cinema non è tanto la realtà di un fatto, ma principalmente un’immagine di quella realtà, così come ciò che attirò le prime folle al cinema non fu tanto un’uscita dalla fabbrica e un treno che entra in stazione, ma un’immagine dell’uscita della fabbrica, un’immagine del treno. Le immagini di Schindler’s List evocano l’aspetto di immagini-ricordo, e si tratta di un’identificazione che ci introduce nell’esperienza di qualcosa che potremmo chiamare vita ritrovata oltre che rievocata: proprio come succede in Jurassic Park con i dinosauri, in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) con i dispersi nello spazio ritrovati nel gran finale, in Always (1989) con i morti e il fantasma, a ritornare sotto forma di epifania è l’esperienza dell’assenza. Si pensi, in Schindler’s List, alla sequenza della ricerca da parte dell’industriale Schindler del suo fido contabile ebreo capitato per errore nel treno dei deportati: quando Schindler riesce a ritrovare il suo lavoratore si rammarica con lui per avere corso il rischio di perdere appunto “un lavoratore importante” e non si pone affatto il problema dello sterminio ebraico, che invece le immagini ci riportano con drammaticità quando una panoramica lascia le figure dei due uomini e scorge le casse dei “resti” umani, denti e oggetti, che provengono da un luogo innominabile.
Fotografia e personaggi
La fotografia in Schindler’s List rianima immediatamente le forme arcaiche della devozione familiare, di un sentimento profondo e atavico, ed è evidente che questa qualità emotiva del film è identificabile come la riproduzione di un sentimento diffuso a tal punto da poter essere definito sociale. Il sentimento per gli assenti della Shoah coinvolge il regista in prima persona, e l’equivalenza simbolica tra il personaggio di Schindler e tratti del regista incantatore trova nel film una consistente plausibilità. Schindler è un uomo cordiale che coltiva il gusto della comunicazione, a cui piacciono la bella vita e le belle donne. E’ l’industriale che non sembra porsi in alcun modo il problema dell’ideologia e delle conseguenze che una tale rimozione comporta. E’ forte, si atteggia come leale e generoso, propone agli ebrei del ghetto di Cracovia di barattare i loro soldi oramai inutilizzabili con le pentole (un domani utili) prodotte dalla sua fabbrica in allestimento (ecco qui tutta la furbizia di un commerciante allineato). Sintomatico il rapporto che Schindler intrattiene con le donne: la moglie è sempre in sordina, senza un ruolo preciso da assolvere (qui l’identificazione Schindler-Spielberg, per quanto forzata, è legittimata dalla circostanza che il regista non attribuisce alla donna un ruolo sviluppato e addirittura, in una sequenza della fabbrica, quando uno Schindler più consapevole invita un operaio incredulo a festeggiare assieme lui il semplice fatto che sono ancora vivi, gli capita ad un certo punto di fare eclissare la moglie fuori dal quadro perché, evidentemente, non serve più…); è però anche vero che quando Schindler viene scoperto dalla moglie a letto con un’altra donna, non esita a dire alla consorte, con la stessa disarmante ingenuità del protagonista di Incontri ravvicinati del terzo tipo: “Lei ti piacerebbe”. Dunque Schindler la fa a tutti senza voler per questo fare del male e, quando d’improvviso si rende conto di avere la possibilità di salvare dallo sterminio centinaia di uomini, ecco che i suoi veri sentimenti, sopiti nel grigiore della vita borghese, emergono e diventano tutt’uno con la tensione umanitaria che il film rivendica in maniera manifesta. Da “uomo massa” egli si trasforma, per la fortuna dei suoi ebrei, in individuo con gli occhi spalancati sul destino dei “suoi” uomini.
Elementi comuni nel cinema di Spielberg
A livello estetico, il film ritrova un bianco e nero il cui nitore induce a una visione intensa e allusiva mentre il racconto di immagini realizza curvature drammatiche culminanti in accenti fortemente immaginativi. L’adesione ad un momento di grave disagio umano è ribadita anche da una sinfonia lirica di sapiente essenzialità con cui il fedele compositore John Williams offre momenti di partecipazione per le persone che si ritrovano nel caos impazzito della Storia. Il film procede come una sorta immersione cadenzata e traboccante, per innervarsi nelle pieghe di una riproduzione fotografica che integra ed esalta la nozione più vasta di partecipazione affettiva. Per essere compreso a fondo, il film dovrebbe essere letto considerando il particolare momento espressivo vissuto dal suo regista ed essere contestualizzato, in principale misura, nel suo cinema di quegli anni. Ne sortirebbe la valutazione che le somiglianze tra un film come Schindler’s List, che fece storcere il naso a una certa critica radicale, e ad esempio Jurassic Park, giocattolone campione al box-office contemporaneo al film sulla Shoah, sono forse più salienti e significative delle pur luminose differenze. Entrambi i film sono il pretesto per una ricomparsa dei fantasmi del nostro passato e conducono lo spettatore a fare i conti con l’inesorabilità: così, quando la follia irrazionale arriva a dominare il mondo, nessuno può evitare che il sangue di una giovane ebrea laureata, che voleva dare utili consigli tecnici per la costruzione del suo campo di lavoro, si disperda nella neve; in un mondo totalmente asservito ad una ratio alla deriva, la ragione non detta più alcuna legge logica plausibile e il valore del singolo non rientra nella scacchiera delle valutazioni; allo stesso tempo, nessuno può evitare che un’automobile impazzita ti insegua sopra la testa se per salvare la pelle ti sei aggrappato ai rami di un albero della foresta del megalomane miliardario Hammond. Ma come lo spettatore è portato davanti al baratro in un mondo spiegabile attrverso la “Teoria del caos” del matematico Malcolm di Jurassic Park, questo cinema è anche esemplificazione di una fiducia nelle possibilità salvifiche delle immagini ed è portatore di un messaggio di ottimismo almeno per gli spettatori più giovani.
Hanno evidentemente un’implicazione metaforica le sequenze in cui ai bambini capita di salvare la pelle (in Schindler’s List sono sempre abituati da altri bambini, in Jurassic Park si salvano perché nemmeno i velociraptor ce la fanno a divorarli, in ultimo arriva addirittura il T-rex a dar loro una mano), mentre la morte di un bambino, un evento tragico intollerabile, riverbera i bagliori disarmanti della dismisura, riflessi della “luccicanza” che permane nel piccolo cappotto di colore rosso. Nei due film è centrale l’industriale che vuole far del bene: Schindler è l’uomo senza una vera coscienza ideologica che, dalle pretese di ricchezza glorificate con l’occasione speculativa della guerra, passa all’ideale umanitario di salvare la vita agli ebrei; Hammond è il miliardario che con il suo parco (hollywoodiano) delle meraviglie, aperto anche ai meno abbienti, vorrebbe permettere a ogni uomo di vedere a occhi aperti le immagini che abitano i suoi sogni, ma che nessuna occasione ha permesso ancora di realizzare concretamente. I due uomini prospettano la raffigurazione di un modello di società industrializzata sana e umanitaria, che sappia essere al servizio di tutti: in definitiva, ad apparire all’orizzonte è l’immagine fantasmatica di un capitalismo non selvaggio.
Il protagonista: dal libro al cinema
Questi ritratti in positivo di industriali neo-rooseveltiani spiegano il risentimento di alcuni interpreti nei confronti del cinema di Spielberg. Ma lo spiega ancora di più il fatto che Spielberg dipinge un personaggio tutto suo ed evita in Schindler’s List di sottolineare le ancora più profonde compromissioni di Schindler con il nazismo rimarcata invece nel libro di Thomas Keneally; quindi, la conversione del personaggio appare, almeno nella resa espressiva, un po’ forzata, sancita nel momento in cui Schindler, l’eroe di questo film in bianco e nero, vede il colore del cappottino rosso dissolto tra le ceneri. In questa sequenza – tra le più discusse – il regista ci mostra in realtà che sono sempre state le immagini a “significare”, a produrre “insights” di senso in grado di rendere possibile persino una conversione. Certo, Schindler diviene, da cieco affarista, addirittura il paladino di un modello di industria “assistenziale”, e tale eccesso di bontà d’animo è facilmente leggibile come pretestuoso, per quanto tutto il film vi si sorregga per mettere in mostra l’evidenza che perfino in circostanze tanto estreme e caratterizzate dall’omologazione del vedere e del sentire ci fu chi comprese il dramma di una tragedia storica e fece quello che avrebbero dovuto fare tutti: svegliarsi dal torpore dell’annebbiamento. Mentre Jurassic Park è uno sfacciato e divertente marchingegno promozionale perfettamente in linea con il sistema che lo ha generato (l’estetica del parco e i protagonisti sono gli elementi più idonei per il futuro merchandising), con Schindler’s List Spielberg paga il pegno alla Storia, e dunque si fa manifesta in lui una concezione solo apparentemente più “seria” del fare cinema. Nella Storia non ci sono biciclette che volano né dinosauri resuscitati.
L’industria e la sua salvezza etica
La Storia è un racconto di morte e sopraffazione che non esclude però, per l’autore, la salvaguardia della propria poetica di Speranza. Il regista afferma apertamente che un’industria, così come un parco di divertimenti seppure eccezionale (si legga Hollywood), se lasciato alla mercé del sistema e deprivato di presupposti etici, non può che confluire in un contesto di omologazione (anche di questo parla un recentissimo film di Spielberg, Ready Player One). Occorre dunque sapere leggere i mutamenti dell’immaginario, innovare portando esperienze eccezionali capaci di invertire la rotta e rompere l’omologazione. Fa eco a questo discorso il sogno populista del miliardario Hammond di Jurassic Park, una fede nelle capacità salvifiche dello spettacolo come intrattenimento in grado di portare verso di sé gli spettatori di ogni ceto e appartenenza. Spielberg, consapevole di essere il protagonista al vertice di una potente industria dello spettacolo, dialoga così, attraverso i suoi film spettacolari, con i suoi “fratelli” spettatori. Un giudizio serio su Schindler’s List non dovrebbe evitare di considerare gli esiti di una rappresentazione dove il cinema classico americano, con i suoi tempi cadenzati e il ritmo avvincente, sembra frequentare i dettagli di una visione che ha tra i suoi modelli Eric von Stroheim e i maestri del cinema russo. Inoltre, mentre la prima parte del film, raffinata ed efficace, è compatta e notevole, la seconda è qualche volta abbagliata da situazioni sempre esemplari. Il regista mette tutto se stesso e rischia molto, mentre il finale traboccante emozione, con gli attori che accompagnano i veri sopravvissuti di Schindler a rendere omaggio sulla tomba del loro benefattore, rientra di diritto tra i finali “clamorosi” di tradizione spielberghiana, in questo caso però il contatto non avviene tra gli alieni e i terrestri come in Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma tra i veri protagonisti della Storia e i loro interpreti. Un finale che sigla l’avvenuto ingresso del cineasta nel cinema “serio” e “per adulti” e che gli permette di marcare quanto siano sottili le barriere tra rappresentazione e realtà nel suo cinema. Un omaggio sentito in un film che ha la caratteristica abbastanza unica di essere al contempo un testo che parla di economia, di numeri, di realtà pratica e operativa (in tanta concretezza, l’avvento del sovietico che annuncia al popolo ebreo che non è ben visto né ad est né ad ovest, è come l’annuncio della nascita di Israele) ma anche un film spirituale, dove la lista di Schindler riverbera i suoni di un’Arca salvifica di cui abbiamo tracce significative nel cinema del regista americano.
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