Il ruolo del cinema nella società muta dopo la seconda guerra mondiale, con le trasformazioni sociali ed economiche dei lavoratori. Il Neorealismo accompagna la ricostruzione del dopoguerra e contribuisce a diffondere un nuovo atteggiamento nei confronti del cinema, d’ora in poi non più soltanto strumento di svago ma tramite per comunicare le problematiche sociali al mondo. Il rifiuto dell’artificiosità del cinema fascista, lontano dalla realtà, porta alla figura del cineasta come depositario della coscienza critica, l’osservatore attendo della realtà contemporanea di cui coglie gli aspetti più urgenti, tra cui le problematiche della disoccupazione, della miseria dei meno abbienti, dell’emarginazione, nella prospettiva di invitare a ridisegnare scenari sociali e civili.
I nomi di Rossellini, De Sica e Zavattini sono i più luminosi e rappresentativi della corrente. La lotta di Liberazione e il Neorealismo mostrano un popolo che reclama un forte senso critico nei confronti delle istituzioni e della società, portando un cambiamento profondo nella cinematografia che intende mostrare l’ingresso dell’Italia, sconfitta dalla guerra, nelle democrazie. Un cambiamento importante avverrà negli anni Cinquanta, quando il tema del lavoro rimarrà presente ma scomparirà la fabbrica, con i suoi reparti e spazi, ma anche la tematica della lotta di classe o lo scontro sociale. Il cinema e la narrativa si occupano di disoccupazione: la lotta per la sopravvivenza sconfina dal cinema di denuncia alle commedie di Totò, e il grande classico di una rappresentazione delle strade è Ladri di biciclette, in cui il conflitto è vissuto persino tra i poveri che devono sgomitare per mangiare.
Il film di De Sica racconta con rara bellezza una giornata di Antonio Ricci, attacchino romano neo-assunto e derubato della bicicletta, alla disperata ricerca del ladro con il figlioletto Bruno. In una giornata in cui Roma si mostra dipinta in tutta la verità del più felice tra i sodalizi di De Sica e Zavattini, il duo incontra indifferenza, forte ostilità, ma anche solidarietà, in un ritratto in cui l’amore per i personaggi e la poesia del quotidiano definiscono, con Roma, città aperta, la vetta più accalorata del neorealismo. A suo tempo il film conobbe una fama straordinaria, e fu a lungo collocato nelle classifiche autorevoli tra i più importanti film della storia del cinema.
Oggi Ladri di biciclette, restaurato e di nuovo nelle sale, mantiene il pathos e la forza espressiva che in quegli anni veniva riconosciuta a Chaplin e a Ford, ed è l’occasione per riproporlo alle nuove generazioni. Tratto dal romanzo (1946) omonimo di Luigi Bartolini, con la sceneggiatura firmata anche da O. Biancoli, S. Cecchi D’Amico, A. Franci, G. Gherardi, G. Guerrieri, Ladri di biciclette è, assieme a Umberto D. ancora scritto con Zavattini, espressione di un momento straordinario del cinema come arte della denuncia e dell’autenticità. La ricerca della bicicletta diventa la ricerca della sopravvivenza e la sfida per la dignità. Antonio, interpretato da Lamberto Maggiorani (ma la produzione pensò dapprima a Cary Grant), diede vita al ritratto dell’uomo della strada nel dopoguerra della fame che non piacque ai governi democristiani, tanto che il film gradualmente scomparve dalla lista delle opere predilette. Il ritratto di disperazione si completa con la decisione di Antonio di rubare a sua volta una bicicletta, in una sequenza giustamente passata alla storia. Indimenticabile l’intervento di Bruno, il figlio che raggiunge il padre fermato dalla folla, commovente mentre si porta via il genitore per mano.
Pluripremiato all’estero, anche con uno speciale Oscar nel 1949, il film divenne un punto di riferimento nel mondo, mentre in Italia il neorealismo sarebbe andato incontro alla sua progressiva estinzione. La rappresentazione della miseria, della precarietà lavorativa, sarebbe diventata un tabù. Pochi operai e pochissime fabbriche, dunque, negli anni Cinquanta cinematografici, specie in Italia in cui il Neorealismo aveva promesso la denuncia. Ci sono eccezioni d’autore, come Europa ‘51 di Rossellini, ma il cambiamento è, con gli autori, anche di stile oltre che di attenzioni. L’industria, motore della trasformazione italiana del decennio eppure grande assente al cinema, non impedisce che si colgano tensioni e movimenti che hanno lo spessore di film come Il grido, Il Ferroviere, Rocco e i suoi fratelli, dove Antonioni, Germi e Visconti si allontanano dagli schemi del sociologismo per anticipare l’attenzione per il disagio e introdurre pellicole in cui, sullo sfondo di condizioni lavorative sofferte e precarie, viene illuminata anche la scena dell’avanspettacolo, come regno di illusioni e splendori in cui le ristrettezze si paventano come sopportabili con allegria. Bellissima di Luchino Visconti è il film in cui il mondo degli attori popolari crea un universo di illusioni e aspettative frustrate, in individui che cercano la fama a tutti i costi. Perché anche il Neorealismo, che Ladri di biciclette aveva rappresentato al meglio, non si sottrasse dalle contraddizioni del sistema economico che l’istituzione cinema rispecchia.
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