Il Corriere – The Mule, trentottesimo film diretto da Clint Eastwood, arriva undici anni dopo Gran Torino, in cui il regista de Gli spietati si diresse per l’ultima volta in un’opera amara e dal sapore testamentario. Succede che Eastwood, anziano e ancora aitante (è in fase di montaggio un nuovo film), ritorni in scena in un racconto che beatamente si propone come il monumento alla sua figura mitica, di antieroe che il tempo ha reso simile a Jimmy Stewart – peraltro citato espressamente. Una silhouette di eleganza e incauta temerarietà che risuona degnamente come doppio cinematografico di Leo Sharp, il veterano della seconda guerra mondiale cui Eastwood si ispira interpretando Earl Stone in The Mule, l’anziano coltivatore di fiori che per evitare lo sfratto della sua casa, nel Midwest in piena crisi economica, accoglie la proposta di un misterioso boss del cartello del narcotraffico di Sinaloa che lo vuole assoldare, utlizzandolo per la sua guida che in tanti anni non ha mai ottenuto nemmeno una contravvenzione. Earl diviene uno spacciatore dapprima a sua insaputa, ma presto scoprirà il contenuto del bagagliaio del suo pick-up nero e ciononostante non interromperà la sua corsa, le sue numerose trasferte, deciso ad andare fino in fondo, consapevole di potersela cavare ma anche di non avere troppa scelta. Costretto in condizioni che lo attanagliano – l’imminente sfratto della sua abitazione, la progressione sempre più pericolosa delle sue trasferte – Earl Stone è Clint Eastwood che interpreta un personaggio volutamente politically incorrect, ed è un piacere quasi imbarazzante il ritrovare l’anziano cineasta in gran forma fisica e monumentale bellezza. Eastwood sa bene quali possono essere le reazioni del pubblico che si trova a tifare per un vecchio eroe ancora in grado alla sua età di correre con il pick-up nelle splendide vedute della fotografia che The mule regala, con tempi e sequenze di abile classicità.
Sorprende non poco che un quasi novantenne come lui realizzi un film calato nel presente della realtà sociale e al contempo un racconto coerentemente non allineato: Earl Stone è razzista e nondimeno generoso, in un punto di svolta della sua esistenza che, soggiogata dalle difficoltà economiche, diventa simbolo di tante vite che si trovano incastrate in meccanismi di potere mentre la coscienza urla e scalpita per i condizionamenti subiti e la violenza patita.
Irriducibilmente classico, il punto di vista di Stone si permette di dileggiare i tempi moderni ricordando che le persone sono incollate al cellulare perché non hanno un vita propria. mentre, sin dall’avvio, alla domanda sull’utilità di internet, Stone esclude qualsiasi funzione della rete nello scenario che lo riguarda. In effetti l’anziano uomo non ne fa uso, in compenso dovrà fare uso delle pillole per il cuore quando, raggiunta la reggia del capo del cartello Andy Garcia, gli verrà fatta in dono una notte di passione con due procaci donne. Stone è dunque un vecchietto gaudente, che utilizza i soldi delle rischiose trasferte – la Dea è sulle sue tracce – in beneficenza, mentre non si sottrae a quella mondanità che fu motivo di fuga dalla sua famiglia in tanti anni in cui si trovò a preferire le scorribande mondane al focolare domestico. Naturale che il lupo non perda il vizio e che l’unico suo vero talento, quello della guida, serva al veterano per recuperare denaro e mettersi al riparo dall’indigenza.
La svolta avviene allora quando la nipote, la sola rimastagli affezionata e che non lo rimproveri per la sua abituale trascuratezza come fa invece sua figlia, lo contatta annunciandogli che la nonna, cioè l’ex moglie, è in fin di vita. Deciderà repentinamente di interrompere il lavoro sporco che sta svolgendo, proprio nel momento in cui per lui la vicenda dei trasporti sta diventano più pericolosa. E in questa decisione, come nel finale in cui durante il processo si dichiara colpevole, si percepisce tutta la portata rivoluzionaria e dirompente di una scelta, quella che le persone hanno la possibilità di fare anche nei momenti meno facili.
Il personaggio di Stone serve a Eastwood per esibire i confronti tra lo stile decoroso e a suo modo autorevole dell’anziano autista e quello dei nuovi scagnozzi del narcotraffico, per i quali esiste solo la regola dello svolgere un lavoro efficace senza creare problemi al boss e senza guardare per il sottile ma anzi sporcandosi abitualmente le mani di sangue. Nel raccontare ancora una volta il suo personaggio colmo di amarezza e disillusione, Eastwood racconta gli anziani che hanno la possibilità di ritornare sui loro passi e di essere da insegnamento per gli altri, come quando Leo, trovandosi a chiacchierare con l’ispettore della Dea interpretato da Bradley Cooper, gli consiglia di mettere al primo posto la famiglia perché il lavoro non è così importante. Ci sono battute sottili e preziose in The Mule. Convincono meno una certa innegabile retorica, che solitamente Eastwood riesce a tenere a bada, e la mancanza di plausibilità ad esempio nel tono confidenziale e da soccorritore che Cooper rivolge a Eastwood dopo che il primo ha scoperto che il secondo è il corriere a cui da mesi viene data la caccia.
Dunque, a parte alcune forzature e un certo tono semplificatorio – lo stesso con cui è dipinta la figura di Earl e con cui Eastwood porta alla conclusione il racconto – resta il senso del cinema come fusione visivamente compiuta di tempi, spazi, luoghi, nel ritratto di un personaggio che, classico individualista, si scopre pronto ad ammettere la propria colpevolezza pur di mostrarsi come un esempio, dunque come l’immagine di una persona in grado di segnare una strada oltre la quale i confini tra il bene e il male diventano più incerti. Al suo fianco Dianne Wiest, la moglie disillusa e ancora innamorata che ha condiviso con il vecchio corriere dieci anni, che ci regala un’interpretazione intensa della fine, la stessa al cui cospetto Earl si presenta come una persona che ha bene in mente il tempo che passa e non torna. Il tempo di cui Erle ha paura, mentre apprezza il respiro fugace dei fiori che coltiva e che per lui sono il simbolo della vita che sboccia e sfiorisce, pronta ad essere coltivata finché sarà possibile anche nel giardino del carcere in cui Stone verrà portato al termine del racconto.
Un film i cui toni più disarmanti sono nelle maniere con cui Stone si scopre, senza filtri, indifendibile o autentico tanto nei pregi che nei difetti (come quando chiama volutamente “negro” un uomo di colore che soccorre per strada, o come quando dileggia un gruppo di lesbiche). Irriducibile e scorretto, il suo personaggio vive la resa dei conti con la propria coscienza, davanti alla fine della donna amata e sempre trascurata, tanto che il film ci fa pensare a come, pur in un sistema che condiziona economicamente le persone e le depriva di diritti, sia ancora possibile riscoprire i sentimenti veri. Lo fa con toni calati talvolta in situazioni che paiono risolte semplicisticamente, e lo stesso Stone, cui Eastwood regala note di vibrante adesione – ferito e corrucciato in un’espressione di grave sofferenza – è un modello di candida astuzia e disinvoltura, da far pensare a una specie di personaggio che avremmo potuto ritrovare in una serie. Anche lui animato da un pugno di dollari, come nei primi film interpretati per Sergio Leone, Earl Stone smaschera la coscienza di un uomo fatalmente proiettato verso la fine, che intona il Country e rimane fedele a un’epoca di abili combattenti, fantasmi di un passato trascorso sulle strade, tra la gente, quanto Jimmy Stewart poteva dire “La vita è meravigliosa” e sollevarsi da un incubo che nel cinema di Eastwood ha fattezze reali, non soltanto metaforiche.
DATA USCITA: 7 febbraio 2019
GENERE: Drammatico
ANNO: 2019
REGIA: Clint Eastwood
ATTORI: Clint Eastwood, Bradley Cooper, Dianne Wiest
PAESE: USA
DURATA: 116 min.
DISTRIBUZIONE: Warner Bros. Pictures
Ma che film ho visto io? Ma chi è questo Leo Sharp?
Leo Sharp è il veterano a cui Eastwood si ispira per il suo personaggio