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Intervista a Milena Canonero, la signora dei costumi quattro volte Premio Oscar

Roberto Lasagna Interviste Mar 5th, 2019 0 Comment

In questi giorni, a vent’anni dalla scomparsa del maestro del cinema Stanley Kubrick, il canale televisivo Iris sta trasmettendo il ciclo di film dal titolo “L’occhio di Kubrick” (dal 4 all’8 marzo), tra cui anche Arancia Meccanica e Shining. Per ricordare il grande cineasta pubblichiamo un’intervista rarissima alla creatrice dei costumi per ambedue i film del cineasta scomparso, Milena Canonero.

Canonero è la signora dei costumi per il cinema, premiata quattro volte con l’Oscar. Nata a Torino, dopo aver studiato storia e arte del costume a Genova, iniziò la carriera a Londra con Kubrick, di cui racconta la collaborazione in questa preziosa intervista, realizzata per il libro “I film di Stanley Kubrick” (Edizioni Falsopiano) da Roberto Lasagna e Saverio Zumbo.

Milena Canonero al Festival di Berlino

Per Arancia meccanica, la sua prima collaborazione con Stanley Kubrick, nonché il primo film a cui lei ha preso parte, in che misura vi siete ispirati al romanzo di Burgess?

Il romanzo A Clockwork Orange descriveva a tinte forti dei personaggi ambientati in un futuro piuttosto lontano. Kubrick invece voleva seguire una direzione differente, per creare una sorta di ambiguità temporale che ci avvicinasse all’epoca in cui lavoravamo. Dunque non abbiamo creato un mondo completamente nuovo perché non era nelle sue intenzioni andare verso uno “Science Fiction Movie” vero e proprio.

E per ciò che riguarda l’aspetto più immediato del suo lavoro, ovvero l’ideazione dei costumi, si può dire che sia rimasto qualcosa di Burgess…

L’unica cosa in cui sono rimasta fedele al libro sono i cod-pieces, cioè le protezioni dei Drughi. Tuttavia nel romanzo risultavano molto elaborate mentre io ho preferito adottare una soluzione più semplice. Poiché ero alla mia prima esperienza nel mondo professionale del cinema, Kubrick mi ha dato molte indicazioni introducendomi alla lunga preparazione del suo film. In primo luogo mi ha coinvolto nella ricerca dei luoghi e mi ha mandato a fotografare certi ambienti sotto la direzione del production designer. Stanley Kubrick voleva che mi rendessi conto di cosa lui cercasse. Così il mio primo strumento di lavoro è stata una macchina fotografica, una Nikon con grandangolare. Abbiamo fotografato moltissimi sopraluoghi perché S. K. è un regista che vuol fare la sua selezione dopo che si è esaurita la scelta. Ha una grande avidità artistica e intellettuale. E mi ha sempre tranquillizzata, dicendomi di non preoccuparmi dell’organizzazione, ma unicamente dell’immagine. Procedendo nel lavoro elaboravo delle soluzioni e ad un certo punto ne abbiamo parlato. Tra le altre cose gli ho esposto il progetto di vestire i Drughi di bianco, come infatti appaiono nel film. Questo è stato il punto di partenza. In quel periodo le gang e gli skin-heads erano una realtà sociale di cui si parlava molto. Io, allora, mi trovavo già a Londra e, pur stilizzando, mi sono ispirata a ciò che vedevo intorno a me.

Arancia meccanica fece scalpore per il modo in cui affrontava il tema della violenza…

E’ vero, ma a parer mio quella di cui si tratta nel film di Kubrick è una violenza molto metaforica e non gratuita.

Nello stesso periodo uscì un altro celebre film sulla violenza, Cane di paglia, e ci fu chi lo avvicinò al film di Kubrick…

Sono dei confronti piuttosto superficiali, che non riescono a cogliere l’aspetto profondamente morale di un film come Arancia meccanica. Il messaggio è chiaro: non si può eliminare l’aggressività di un individuo, per quanto violento esso sia, se non c’è volontà da parte dell’individuo stesso, perché si finisce con il castrarlo e col lasciarlo in balia della violenza altrui. Ed è meglio che rimanga così piuttosto che un uomo che non ha scelta. La scelta tra il bene e il male.

Il celeberrimo primo piano di “Arancia Meccanica”

Con Kubrick avevate parlato della violenza prima di iniziare le riprese?

No, non è un regista che si sieda a tavolino perdendosi in dettagli per spiegarti il film. Lo realizza e chi lo vede ne ricava la sua personale conclusione. L’opera è lì sul copione, è nel modo in cui la gira e la fa interpretare.

La realizzazione di Arancia meccanica è stata coinvolgente?

Si, moltissimo, è stata la più eccitante esperienza di lavoro della mia vita. Dagli studi che stavo completando sono passata al grande cinema: costumista in un film di Kubrick… Nell’osservare il suo modo di girare il film, gli obiettivi che usava, le luci che sperimentava, come entrava nei dettagli e come dirigeva gli attori, mi rendevo conto che si trattava del lavoro di un genio, nonostante la mia mancanza di esperienza. 

Quando è stata invitata a lavorare per Arancia meccanica si è imposta di fare valere alcune sue idee precise oppure…

No, assolutamente. Le cose prendono forma, maturano, non si risolvono certo all’improvviso, soprattutto in fase iniziale. Kubrick mi ha circondata di persone assai esperte sul piano organizzativo, mentre su quello artistico mi ha lasciato grande libertà di espressione.

Barry Lyndon

Lei ha preso parte alla realizzazione di tre dei più celebrati film di Kubrick: Arancia meccanica, Barry Lyndon e Shining. A propostito di Barry Lyndon, come lo considera, più realistico o poetico?

Lo considero un film molto poetico, ma di un poetico tutto particolare, perché ironizza sulle debolezze del protagonista. E’ un film di una bellezza più pittorica che realista. In ogni suo lavoro Kubrick inventa una tecnica adatta per il suo film e in Barry Lyndon domina il tracking-zooming, questa grande apertura di campi visivi insieme alle zoomate, i lunghi movimenti di macchina che si accompagnano alla musica. Il “passo” stesso del film, il suo andamento è del tutto differente rispetto alle altre opere. Kubrick è nuovo ogni volta che dirige un film, non si copia, non si ripete. Qui il segreto della sua unicità. Pur rimanendo lo stesso, perché le sue opere sono sempre attraversate da uno humour sottile e particolare, sa formulare ogni volta una scrittura adatta all’opera che realizza, come succede in Arancia meccanica, oppure in Shining.

Entriamo adesso nel merito del suo apporto più diretto al film: i costumi…

Ci siamo appoggiati ad una ricerca pittorica reinterpretandola per non cadere nell’accademismo. All’epoca del film ho girato l’Europa per vedere cosa c’era di già disponibile, per sapere se dovevamo realizzare tutti i costumi o solamente una parte. Così ci siamo accorti che molti degli abiti che avremmo potuto noleggiare erano insoddisfacenti, tagliati in un modo che io definisco “teatrale”, con le spalle quadrate, moderne, confezionati con tessuti inadatti. Così tutti i costumi che appaiono in Barry Lyndon sono stati confezionati apposta per il film, fatta eccezione per cinque modelli, -solo cinque!- affittati in una casa di noleggio di Roma. Abbiamo allestito un laboratorio di oltre quaranta persone, cosa piuttosto inaudita prima di allora per un film, e assieme a Ulla Britt Söderlund supervisionavamo questo enorme lavoro. I costumi di Barry Lyndon furono naturalmente tagliati sui modelli dell’epoca, con una cura molto particolare anche ai busti e alla biancheria dei tempi. Solo le scarpe furono realizzate da Pompei di Roma. Naturalmente abbiamo voluto dare alle scene una certa eleganza, romanticizzando quel periodo storico. E questa è stata l’indicazione che Kubrick mi ha dato per l’armonia del suo film.

Soffermiamoci sulle indicazioni di Kubrick per Barry Lyndon.

Stanley desiderava che il film avesse una sua poesia, che riflettesse una visione idealizzata e ironica del Settecento; non era nelle sue intenzioni restituire un’immagine realista e cruda. Per questo, come prima cosa, mi mandò in Europa a comprare tutte le edizioni disponibili delle illustrazioni d’epoca al fine di costruire una biblioteca di referenti; da lì si fece una scelta che influenzò l’ispirazione visiva del film. Ci siamo ispirati molto a certi pittori dell’epoca, tra i quali, ad esempio, Gainsoborough, Reinolds, Chadowiecki, Chardin, Stabs, Cooper, Zoffany. Fu anche molto suggestivo e completamente nuovo l’impiego delle candele come fonte di illuminazione. Stanley aveva fatto adattare una lente speciale Zeiss che non era stata mai utilizzata prima per un film, grazie alla quale ha potuto fotografare delle scene realmente a lume di candela. Anche in quel caso Kubrick aveva sperimentato un’innovazione tecnica adatta per il film.

Shining

E nel lavoro successivo, Shining, Kubrick utilizza con grande perizia la steadicam, un’altra innovazione tecnica che tanta parte avrà nel cinema americano a venire…

La steadicam era stata da poco inventata da Garret Brown e pochissimo utilizzata prima di allora. In Shining invece veniva impiegata con continuità come uno degli elementi espressivi portanti perché rendeva bene la situazione carica di ansietà dell’Overlook Hotel. Kubrick aveva chiamato l’inventore stesso della macchina affinché si prestasse a fare da operatore per il suo film. Questi rimase con noi per tutto il tempo di lavorazione. Ci vuole una grande abilità e una notevole agilità per usare bene la steadicam.

Tra le tante leggende che sono nate sul lavoro di Kubrick, una riguarda le magliette del piccolo Danny di Shining: secondo alcuni il regista avrebbe girato diversi ciak vestendo il bambino in modo sempre diverso, per avere poi la possibilità di scegliere la maglietta giusta in fase di montaggio…

Questa è una vera stupidaggine, che solo gente che non è del mestiere si potrebbe inventare… per mettere a tacere una volta per tutte una simile “leggenda” le rispondo che è certamente falsa. Ci sono tanti metodi per vestire gli attori e per fare approvare i costumi dal regista. Si può cominciare dai bozzetti, poi ci sono le foto delle prove. A volte, durante le prove, i registi vogliono essere presenti; altre volte preferiscono non esserci e lasciarti completa “carte blanche”, così li trovano sul set già pronti. Naturalmente questo avviene dopo che sia stato discusso assieme il Look. Kubrick, visti i primi esemplari e la direzione che si segue, ti lascia molta libertà. I costumi per il piccolo protagonista di Shining servivano a descrivere il divertimento e l’amore della madre verso il figlio e vice versa; Wendy, la madre, indossa invece dei costumi che le conferiscono quell’aria sospesa tra le nuvole, un misto di donna e bambina. E quando “l’orrore” invade la scena, questo contrasto diventa ancora più evidente. Ad ogni modo, prima di girare si fa un piano di lavoro che prevede tutti i vari cambiamenti di costume secondo le esigenze del copione e del budget. Nessun regista sarebbe mai così insicuro o ottuso da non sapere cosa vuole e da girare la stessa sequenza con vari cambiamenti per poi scegliere solo in fase di montaggio! Il regista può avere varie scelte per l’interpretazione o i “set ups”, ma non di certo per delle magliette! 

Stanley Kubrick

Questa come altre leggende si lega all’idea mistificante di regista che ha il controllo totale della scena e che in fase di montaggio realizza il mito del cinema come creazione pura…

E’ vero che Kubrick dedica moltissima cura ai dettagli e alle ricerche. S. K. va a fondo in tutto: si occupa della regia, del montaggio, ma anche del lancio del suo film. Cura di persona perfino il doppiaggio in lingua straniera, come ben pochi registi fanno. All’uscita dei suoi film fa controllare le copie, i proiettori e la qualità del suono nelle sale. Anche su questo nacquero inverosimili leggende che non perdo tempo a ripetere. Kubrick non è un eccentrico irragionevole come certa gente vorrebbe far credere ma un uomo di genio, un grande artista che quando fa o decide qualche cosa lo fa con intelligenza. Per tornare ai costumi, fu Stanley a insegnarmi l’importanza di disegnare e supervisionare il “total look” dei personaggi e dell’atmosfera. Mi diceva che gran parte del cinema è la testa e che quindi dovevo cominciare da lì. Lavoravo con Barbara Daly, make up, e Leonard, hair stylist, due grandi artisti e cari amici che avevo introdotto a Stanley. Leonard aveva da poco ideato i colori elettrici e stravaganti che più tardi furono ripresi nel punk-look. Con lui elaborai in Arancia meccanica i capelli con le meches viola e verdi delle ragazzine nella sequenza del milk bar e delle ragazze che Alex si porta a casa. Peccato che non si vedano quasi sullo schermo. Con Barbara decidemmo che i Drughi avrebbero dovuto avere degli elementi di trucco stilizzato. Il più riuscito fu quello di Alex. L’occhio con la ciglia finta. Prima provammo con entrambe le ciglia; questo gli dava uno sguardo strano ma non terribile. Ma quando togliemmo una ciglia capimmo che l’occhio rimasto con la lunga ciglia finta rendeva quello sguardo inesorabile e surreale adatto al personaggio. A Kubrick piacque tantissimo. In Barry Lyndon introducemmo un certo tipo di make-up che si doveva notare nelle scene eleganti ma che nello stesso tempo doveva apparire delicato, mai moderno, per riportarci al make up di quei tempi, e ai quadri d’epoca. Inoltre, nel diciottesimo secolo, in certi ambienti gli uomini erano in competizione con le donne per belletti e ciprie, perciò in alcune sequenze introducemmo anche per loro un make up chiaro e dei rouges che li rendevano candidi e perfetti come bambole, senza nulla togliere alla loro virilità. Con Barbara avevo fatto molte ricerche sul tipo di Maquillage che si usasa all’epoca, così scoprimmo che era anche molto dannoso, e naturalmente noi lo riadattammo per non danneggiare i nostri attori. Credo che raramente si fossero visti sullo schermo attori tanto truccati. Dopo allora questo look è stato più volte ripetuto, ma al momento era molto innovativo. Le parrucche furono ispirate dalle ricerche, ma francamente nella realtà erano molto più brutte, grossolane, sporche, e anche in questo caso abbiamo preferito riferirci ai pittori che idealizzarono il Settecento. Molte parrucche furono fatte apposta per il film anche perché il repertorio che avevamo visto in giro era inaccettabile. Ma il lavoro è stato condotto in modo sempre ragionevole, perché con Kubrick non si sperpera e non è affatto vero quello che dice Vincent Lebrutto nel suo libro su Stanley Kubrick, il quale racconta di quindici parrucche che sarebbero state preparate soltamente per Ryan O’ Neil. In realtà Ryan aveva solo due parrucche e tre code, le code si applicavano ai suoi capelli che venivano pettinati in varie maniere; mentre per Marisa Berenson avevamo tre parrucche e due mezze teste. Certo, tra attori e comparse alla fine creammo qualche centinaio di parrucche. E l’enorme libreria di ricerche che avevo messo su per Stanley era sempre a nostra disposizione. A lui piace il concreto e la parte più eccitante era quando io e Ulla gli mostravamo i prototipi che avevamo preparato. Ricordo ancora quando, tutte incipriate da Barbara Daly come se fossimo state di porcellana, imparruccate da Leonard, il busto e un enorme cappello, presentammo il look inglese alla Gainsborough. Prima degli attori eravamo noi a fare da cavie, e Stanley mi fotografò per serbare il disegno del personaggio. Questo periodo di preparazione (che noi chiamavamo di pre-production) era il più eccitante e con Kubrick si lavorava in maniera molto semplice, direi quasi domestica. Spesso abbiamo lavorato nel garage di casa sua adibito a laboratorio, prima di stabilirci in altri posti quando poi il lavoro si ingrandiva. A casa di Stanley eravamo circondati da un ambiente caldo e simpatico, e da tanti bellissimi cani, golden retrievers e gatti. Quando poi cominciavamo a girare, S. K. dava a tutti i capi di dipartimento un Vokswagen mini-van. Dentro al nostro, che guidavo quasi sempre io, avevamo organizzato un piccolo ufficio d’emergenza. Eravamo sempre di corsa. Specialmente ai tempi di Barry Lyndon, che comportò tutti quei cambiamenti di luoghi. La polizia conosceva la “Scuderia Kubrick” e mi ha spesso lasciata andare quando mi fermavano per eccesso di velocità. In Shining invece non ci fu bisogno di questo metodo di trasporto dato che il film fu girato quasi esclusivamente negli studi di Elstree. Anche gli esterni dell’hotel e il labirinto con la neve, furono ricostruiti in studio.

Lei ha lavorato per tre dei più celebrati film di Kubrick, ne ricorda uno con maggiore entusiasmo?

Sono molto grata del fatto che Stanley mi abbia chiamata così spesso. Ciascuno dei tre film è importante per me. Barry Lyndon ha portato a me e a Ullla un Oscar, ma anche gli altri sono legati a momenti davvero belli della mia vita… Avere fatto parte del mosaico, avere contribuito alla realizzazione visiva è certamente una grande soddisfazione.

Un contributo non secondario per un regista visionario come Kubrick…

E’ il contenuto e non necessariamente l’immagine l’aspetto più importante di un film. Con Kubrick l’enorme soddisfazione è consistita nella possibilità di collaborare a tre opere che soddisfacevano entrambe le esigenze. Lo sguardo che trasfonde nei suoi film è unico.

(Conversazione tratta dal libro “I film di Stanley Kubrick” (1997). Per gentile concessione di Edizioni Falsopiano)

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Roberto Lasagna

Saggista e critico cinematografico, ha scritto numerosi libri, tra cui "Martin Scorsese" (Gremese, 1998), "America perduta. I film di Michael Cimino" (Falsopiano, 1998), "Lars Von Trier" (Gremese, 2003), "Walt Disney. Una storia del cinema" (Falsopiano, 2011), "Il mondo di Kubrick. Cinema, estetica, filosofia" (Mimesis, 2015), "2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick" (Gremese, 2018), "Anestesia di solitudini. Il Cinema di Yorgos Lanthimos" (Mimesis, 2019), "Nanni Moretti. Il cinema come cura" (Mimesis, 2021), "David Cronenberg. Estetica delle mutazioni" (con R. Salvagnini, M. Benvegnù, B. Pallavidino, Weirdbook, 2022), "Steven Spielberg. Tutto il grande cinema" (Weirdbook, 2022), "Ken Loach. Il cinema come lotta e testimonianza" (Falsopiano, 2024).

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