L’analisi del mondo dei lavoratori continua ad essere al centro dell’attenzione di Ken Loach, che con il nuovo film Sorry We Missed You, in concorso a Cannes (mentre si potrà rivedere Family Life la sera di martedì 28 maggio al cinema Kristalli di Alessandria), riflette lucidamente sulla famiglia contemporanea, di cui mostra gli equilibri fragilissimi.
Al centro dello sguardo del regista questa volta troviamo Ricky e Abby di New Castle: il primo acquista un furgone con i soldi ricavati dalla vendita dell’auto della moglie, e diventa “imprenditore” lavorando 14 ore al giorno per fare consegne, la seconda è pagata un tanto a visita per prendersi cura di disabili e malati dalla mattina alla sera; a casa, il figlio Sebastian, in rivolta contro tutto e tutti, e la più matura sebbene solo undicenne Liza Jane, completano un quadro di precarietà delle relazioni, dove i figli non possono contare su genitori in grado di fungere realmente da bussola tra le minacce in cui sono quotidianamente immersi.
Loach da sempre si occupa delle ingiustizie del sistema sociale e dei lavoratori, costretti ad alienarsi senza alcuna tutela per sopravvivere in condizioni disumane: ora, sempre più il regista ci racconta la condizione di “schiavi odierni, portati a diventarlo dalle condizioni di un capitalismo sempre più selvaggio e di questo possiamo solo ringraziare le deboli sinistre internazionali incapaci di interrompere questo processo di disumanizzazione”. Il cambiamento, rispetto al passato, è così spiegato: “Non si tratta più dello sfruttamento da parte dei padroni, ma di quello che infliggiamo a noi stessi, dell’auto-sfruttamento che porta a una schiavitù autoindotta: lavorare di 14/15 ore al giorno per racimolare denaro appena sufficiente a sopravvivere”.
Ken Loach affianca con passione civile i suoi protagonisti, nelle ritorsioni su di loro conseguenti la metamorfosi della situazione economica. Il regista, anche nel nuovo film, ricerca la trasparenza e la vita quotidiana nei suoi istanti colti sul nascere. Sono le cose a dover parlare senza la spettacolarizzazione e le forzature di una macchina da presa ingombrante. Il cineasta ottantatreenne è un paladino della coerenza ed esordisce sul finire degli anni Sessanta: nel corso del tempo il suo stile si diventa via via più essenziale e rigoroso, quello di un osservatore senza orpelli, che mostra e rivela la realtà attraverso uno sguardo intenso. Una scelta di sobrietà fin dall’utilizzo del tipo della pellicola impiegata: Riff-Raff, Piovono pietre, Ladybird, Ladybird, sono girati in 16 mm, una modalità di realizzazione “leggera”, e mostrano la povertà dei disoccupati nell’Inghilterra degli anni Novanta con immediatezza, cifra stilistica di un autore che in oltre cinquant’anni di cinema è ricordato per l’urgenza delle storie che racconta.
Il suo è uno sguardo morale che mostra sorprese nell’adesione alla realtà, attraverso un punto di vista non invisibile ma attento alla messa in scena del reale, attraverso una sottrazione che spoglia il racconto di tutte le differenti e ingombranti strade che sarebbe possibile adottare per affrontare quel particolare tipo ti tema. Nella ricerca del modo più urgente e trasparente di raccontare il reale, il regista da sempre sperimenta formati, contesti produttivi, moduli realizzativi, mentre il suo apprendistato avviene alla BBC, dove negli episodi della serie Z Cars lavora a un tipo di televisione in diretta, tipica degli anni Cinquanta e Sessanta, che ha avuto in registi come Frankehneimer e Lumet dei paladini di intensità. La sua prima regia è Catherine, primo di una lunga serie di ritratti femminili. Ma la libertà di sperimentazione è già negli episodi della serie Diary of Young Man nel 1964, che risentono delle suggestioni della Nouvelle vague e del Free cinema, dove in vero Loach sovverte le convenzioni del linguaggio televisivo con una macchina da presa mobile e il montaggio godardiano.
Con Cathy Come Home (1966) il regista anticipa la vicenda narrata in Ladybird Ladybird (1994) raccontando con formule antinaturalistiche la vita di una coppia di disadattati a cui lo stato toglie prima l’abitazione poi anche i figli. Il ritratto del disadattamento è molto riuscito e Loach prosegue con l’esordio per il grande schermo nel 1967: Poor Cow è a colori e si tratta di un ritratto femminile originale e credibile, che sprigiona la rabbia dello spettatore posto dinanzi al quadro di aggressività maschile, alla resistenza rappresentata dal voler mettere al mondo figli come unica forma di speranza. I soprusi del sistema sociale e le aberrazioni dell’ambiente familiare sono al centro del primo cinema di Loach, che in Family Life (1971) si ispirerà alle teorie antipsichiatriche di Ronald Laing per raccontare le deformazioni prodotte dalla piccola borghesia e da regole sociali crudeli a cui la protagonista Kate oppone, con il suo disagio, una forma di resistenza irriducibile.
Oggetto delle accuse di Loach sono gli effetti del capitalismo persino dentro i più insospettati recessi familiari. La politica fa il suo ingresso in maniera più esplicita nella produzione degli anni Ottanta, che offre ritratti di giovani segnati da condizioni familiari punitive e da futuri ingenerosi. Looks and Smiles, con la fotografia di Chris Menges, racconta la vicenda di due amiconi di Sheffield senza prospettive, tra insoddisfazioni e liti, uno dei quali decide di partire per l’Irlanda del Nord e sedare l’insurrezione armata. I ritratti di giovani, adolescenti senza un futuro, sono l’esito di una consapevolezza che è propriamente politica, come in Kes (1969) o in Sweet Sixteen (2002). Ma la mediazione della famiglia disturbante lascia il posto ora a un cinema militante, tra documentari dedicati ai lavoratori e ai partiti (The Red and the Blue e Questions of Leadership, 1983, Which Side Are You on, 1984), e lungometraggi come Fatherland (1986) e The Hidden Agenda (1990) che affrontano rispettivamente il comunismo dell’Est Europeo e la situazione nord irlandese. The Hidden Agenda accusa senza mezzi termini i capi politici e i militari dell’occupazione britannica, portando in scena un complotto che si avvicina alle tinte del thriller e che costa a Loach accuse come quella di essere fiancheggiatore dei terroristi. Per il grande pubblico Loach diventa un nome di riferimento nel 1991 grazie a Riff-Raff, prodotto da Channel Four, in cui il regista realizza il film più bello ed esemplare della British Reanissance in un periodo in cui la commedia e il pamphlet sociale diventano una moda con film innocui ma divertenti come The Full Monty o Grazie, signora Thatcher.
Loach diviene, nell’attenzione per personaggi che colorano una scena intrisa di modernità e realismo ribadito dalla “camera a mano” (memore dell’esperienza televisiva del cineasta), il narratore attento dei lavoratori, in questo caso un gruppo di manovali che sbarcano il lunario senza alcuna garanzia sindacale né sanitaria. Accanto alle tematiche, lo stile, da alcuni considerato medio o anonimo, in verità intensa descrizione partecipata dei caratteri e dei comportamenti, come ritagliati dalla realtà e vissuti assieme allo spettatore in un cinema che cerca la trasparenza dell’autenticità. Questa realtà presa a morsi rivive in Piovono pietre (1993) che conferma l’attenzione per la classe proletaria di un regista il cui romanzo sociale conquista il cinema d’essai. Con sempre maggiore disincanto, lo sguardo del cineasta di Piovono pietre non dimentica l’ironia, l’avvicinamento empatico a personaggi che vivono la disoccupazione alternando lavori umili e mancanza di prospettive. Condizioni sociali che spintono all’illegalità, come nel film Paul, Mick e gli altri (2001), lettura illuminante dei rischi dei lavoratori in contesti di flessibilità e nuova precarietà.
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