Rudik, il tartaro volante, è ormai leggenda, ed è diventato un mito universale, suo malgrado, non solo per il mondo della danza. Rudolf Nureyev ha cambiato per sempre il balletto classico, e da quando l’Occidente lo ha conosciuto, nulla sul palcoscenico è rimasto come prima. Gli piaceva raccontare di come era venuto al mondo durante un viaggio in treno, sulla transiberiana che portava da Ufa a Vladivostok.
Bellezza rovente, fascino irresistibile, una carica sessuale potente e complessa, è stato lui stesso a definirsi con arguzia: “Non so spiegare esattamente cosa significhi per me essere tartaro e non russo, ma sento la differenza nelle mie vene. Il sangue tartaro scorre più velocemente e, in qualche modo, è sempre pronto a bollire. Siamo un curioso miscuglio di tenerezza e di brutalità. I tartari sono più passionali, più combattivi, modesti ma al contempo astuti come volpi; l’uomo tartaro è un animale grazioso ma complesso, questo è quello che sono io”.
Tra coloro che si può vivere di solo Nureyev, abbeverarsi alla sua leggenda e non finire mai di stupirsi di questo fauno splendido dalla levità che sfida le leggi della fisica c’è anche l’attore e regista inglese Ralph Fiennes, che da tempo pensava di trarre un film dal libro che tanto lo aveva colpito, “Rudolf Nureyev: The Life”, scritto da Julie Kavanagh. Ci sono voluti vent’anni per relizzare il sogno, e alla fine il film è divenuto realtà.
Fiennes, innamorato da sempre della cultura e della letteratura russa, in una parola di quella “anima russa” di cui traboccano i romanzi di Dostoevskij, riserva per sé il ruolo di Alexander Ivanovich Pushkin, insegnante di danza di Nureyev (e maestro anche di Baryshnikov). E la bellezza vera di questo film sta proprio negli attori, a cominciare dal regista stesso, misurato e calibratissimo un in ruolo difficile, insieme a tutto il cast russo, a cominciare dal protagonista, il ballerino Oleg Ivenko.

Il regista e attore Ralph Fienness veste i panni del maestro di danza Alexander Ivanovich Pushkin
Il centro del film è il racconto del colpo di scena che regalò il tartaro volante alla storia, quando a Parigi nel 1961, durante una tournée della compagnia di danza Kirov di Leningrado, Nureyev chiese asilo politico alla polizia francese. Il suo gesto suscitò un clamore immenso nel clima di guerra fredda dell’epoca, e il ballerino divenne il simbolo del volo verso la libertà, ampiamente usato dai media occidentali che ne fecero un simbolo della negazione dei diritti in Unione Sovietica. Nureyev – Il Corvo Bianco è un film molto onesto nel delineare il carattere – e le ragioni – del suo protagonista. Insofferente all’autorità, ribelle e anticoformista per natura, tanto da apparire spesso brusco e sgarbato, Rudolf fece l’unico gesto che allora gli era possibile per poter seguire liberamente la cosa che più contava nella sua vita, la danza, e divenire quell’étoile che la consapevolezza del suo talento esigeva. E non fu una scelta priva di dolore per aver abbandonato la sua terra. D’altronde in russo l’espressione “corvo bianco” sta proprio a significare questo: colui che si differenzia dal gruppo, che non può essere omologato ed è destinato a infrangere tutte le regole. “Sono un contadino dell’Unione Sovietica, un ragazzo nato su un treno. Ho il dovere di mostrare al mondo che sono il migliore“.

Rudolf Nureyev e Margot Fonteyn. Il ballerino russo portò anche un nuovo tipo di recitazione nel balletto classico
Nel racconto del volo di Nureyev verso la libertà e l’anticoformismo che gli consentiva l’Occidente, i piani temporali si sovrappongono a numerosi flashback che ne ricostruiscono il passato: dall’infanzia poverissima vissuta con la madre nella piccola città di Ufa al precoce richiamo per la danza, fino all’inizio della carriera di ballerino al Teatro Kirov di Leningrado. I lampi del passato, belli e ben ricostruiti, hanno la pecca di risultare appiccicati qua e là in un apparente disordine, un po’ come i post-it sulla parete di uno sceneggiatore. Calano improvvisamente sullo spettore in un disordine irrazionale che forse, nelle intenzioni del regista, vuole ricalcare l’impeto imprevedibile e passionale del suo protagonista.

Rudolf Nureyev e, di fianco a destra, il ballerino Oleg Ivenko
Il film ha il pregio di restituire la vera disposizione degli artisti e atleti russi che si trovano in terra straniera, soprattutto negli anni della cold war ma anche in tempi più recenti: un timore istintivo nei confronti degli occidentali, un riserbo nel dialogare che nasconde una disposizione protettiva. Chi ha avuto modo di essere a contatto, anche solo quindici anni fa, con artisti o componenti di una squadra sportiva russa sa bene di che cosa si parla.
Nureyev, per sua natura, non poteva essere tra questi. Quando arriva a Parigi con gli altri ballerini del Kirov la sua sete di conoscenza e l’istintivo desiderio di socializzare soverchiano qualunque altro sentimento, e lo mettono subito in contattato con artisti e intellettuali francesi. Vuole imparare, imparare e imparare, e le sue escursioni al Louvre, in esplorazione dei grandi classici della pittura e della scultura (nel film si fa in particolar modo riferimento a “La Zattera della Medusa”, di Theodore Géricault) sono irresistibili richiami per la sua sete di conoscenza. La macchina da presa indugia sul piede gigantesco di una scultura, che Rudy accarezza, contrapposto alle tante inquadrature dei piedi feriti e sofferenti del ballerino Nureyev.
Nureyev – Il Corvo Bianco è in fondo una storia di equilibri: l’equilibrio che il protagonista deve mantenere tra i due mondi, occidentale e dell’Est; l’equilibrio tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica; l’equilibrio del corpo di Nureyev teso verso l’alto, in una miracolosa leggerezza sospesa, nella scoperta di una nuova identità maschile nel balletto classico che strappa il primato alle étoile donne e supera queste ultime in piroette, arabesque, cabriole. E dà nuovo vigore, spettacolarità e passione a una forma d’arte che sembrava destinata divenire un divertissement snob, privelagiato e polveroso.
E infine l’equilibrio trattenuto del regista che, ahimé, rinuncia ad affrontare la biografia con la carnalità e la sensualità che un personaggio come Nureyev avrebbe richiesto. Le locandine con il torso nudo di Oleg Ivenko sono dei bugiardini che promettono allo spettatore di ritrovare ambiguità, complessità, passione in un biopic che avrebbe potuto diventare un trionfo e invece rimane una ricostruzione tiepida e distante, a volte didascalica.

Rudolf Nureyev è Valentino nell’omonimo film di Ken Russell
Niente a che fare con l’epico grand jeté di Claude Lelouch nel film Bolero, dove il regista rende omaggio al grande ballerino russo nella figura di Sergej, che vola verso la libertà, o con la traboccante sensualità di Nureyev stesso, attore e interprete di Valentino, di Ken Russell, un altro “corvo bianco”.
Ralph Fiennes si accontenta di avvicinarsi alla realtà storica e, senza volerlo, riduce un personaggio dalla poliedricità scofinata a una figura bidimensionale.
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