“Nella cultura contadina il diverso, il deforme, viene associato al demonio”, spiega Alessandro Haber nelle vesti di esorcista, nell’ultimo film di Pupi Avati in uscita il 22 agosto: Il Signor Diavolo, una pellicola che riporta il regista ai fasti del suo gotico padano La casa dalle finestre che ridono (1976), che fu un autentico capolavoro, quello che Antonello Sarno ha definito uno dei migliori film di paura “che l’Italia abbia prodotto dai tempi di Riccardo Freda (I vampiri, 1957) e Mario Bava (La maschera del demonio, 1960)”.
Con i suoi evidenti pregi, il nuovo lavoro di Avati forse non riesce ad eguagliare del tutto la perfetta inquietudine emanata più di quarant’anni prima da quella “storia di follia campestre” ambientata nella provincia ferrarese, ma le radici sono le stesse ed entrambe i film si ricollegano alla perfezione all’infanzia del regista, che da chierichetto era cresciuto con la paura del buio e del diavolo – come ha raccontato lui stesso in un’intervista per «La Repubblica» – , in un mondo nel quale il “demonio era evocato continuamente da quei parroci che salivano la scala per fare la loro omelia e da lassù incutere timore e raccontarti un inferno che a confronto Dante era un dilettante”. Un mondo dell’irrazionale, fondato sulla superstizione e sull’ignoranza, per il quale Pupi Avati (non si vergogna affatto di ammetterlo) prova tanta nostalgia. La casa dalle finestre che ridono e Il Signor Diavolo, dunque, sono la riuscita espressione delle paure, del fervore religioso e delle credenze popolari che hanno segnato in maniera indelebile la prima età di Avati. Non a caso, a distanza di così tanto tempo ritroviamo anche due degli interpreti del primo film, qui nei ruoli rispettivamente di sacerdote e sagrestano: Lino Capolicchio e il bravissimo Gianni Cavina, l’attore feticcio del regista bolognese con il quale ha instaurato fin dagli anni Sessanta un lungo e proficuo sodalizio anche in qualità di sceneggiatore. “Tornare a quelle atmosfere”, ha detto Avati, “con alcuni degli stessi interpreti di allora, ha avuto su di me un esito terapeutico, un riaffacciarsi del cinema in tutte le sue sfrontate potenzialità”.
L’essere deforme ed emarginato di cui parla l’esorcista è al centro di questa storia soprannaturale, tratta dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Pupi Avati. Il suo nome è Emilio (Lorenzo Salvatori) ed è il figlio di una nobildonna possidente terriera molto influente nella zona. Siamo nella campagna del “cattolicissimo Veneto” dei primi anni Cinquanta, dove il forte ascendente clericale e le arcaiche “forme di oscurantismo” portano a credere che questo ragazzo informe sia nato dall’unione di sua madre con una bestia, per la precisione un verro (il maschio della scrofa, anticamente associato al diavolo), e che con le lunghe zanne che si ritrova al posto dei denti abbia sbranato a morsi la sorellina ancora in fasce. Per la gente è un essere demoniaco, figlio di “quel male che muore e si rigenera in una infinità di vite nuove e imprevedibili”. E cos’è quel male se non il diavolo? O meglio, il signor diavolo: perché, come dice il sagrestano, le persone cattive vanno trattate con rispetto. Per la donna che lo ha partorito, invece, Emilio è solo la povera vittima del fanatismo e di una mentalità oscurantista.
Sotto certi aspetti, Il Signor Diavolo potrebbe anche essere considerato una rivisitazione di temi e situazioni dei vecchi film della Hammer, la storica casa di produzione inglese specializzata in horror gotici, opere ricche di simboli e suggestioni, eleganti mise-en-scène dell’eterna lotta tra Bene e Male, film dall’andatura a tratti lenta che prediligevano le atmosfere cupe, la suspense, i dilemmi morali, concentrando con la giusta dose il sangue e la violenza in poche scene d’effetto. Le favole gotiche della Hammer erano anche popolate spesso da creature abnormi come Emilio, affette da malformazioni congenite, che attiravano su di sé l’odio e il sospetto delle piccole comunità rurali che facevano da sfondo a quelle storie. Ma se nei film della Hammer eravamo immersi nella campagna inglese o in qualche cittadina mitteleuropea, quasi sempre in epoca vittoriana, nell’ultima fatica di Pupi Avati ci troviamo a Lio Piccolo, un paesino della laguna veneta, esattamente nell’anno 1952, in un momento storico in cui il Veneto era una inespugnabile roccaforte elettorale della Democrazia Cristiana. E a controbilanciare la dimensione metafisica di un racconto gotico incentrato sulla presenza del diavolo, si inserisce proprio la politica. Infatti, quando Emilio viene ucciso da un colpo di fionda dal giovane Carlo (Filippo Franchini), il quale è convinto così di aver assassinato finalmente il demonio (Emilio, dietro le cui sembianze si celerebbe il maligno, avrebbe indotto l’amico del cuore di Carlo, Paolo, a commettere un terribile sacrilegio e ne avrebbe provocato la morte prematura), le forze politiche governative sono allarmate dall’eventualità che preti e suore siano accusati di aver plagiato la mente del piccolo omicida e che il clero venga scandalosamente trascinato in questa vicenda giudiziaria minando anche la credibilità del partito democristiano. Clara Vestry Musi (Chiara Caselli), la madre di Emilio, accusa infatti la Chiesa di fanatismo e di essere quindi responsabile della morte del figlio, e minaccia di ricorrere alla propria influente posizione per danneggiare il consenso elettorale della regione alla DC. Da Roma viene mandato il pubblico ministero Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice) con il gravoso compito di insabbiare le indagini e dimostrare che il quattordicenne abbia agito solo per folle istinto. Un finale a sorpresa getta una sinistra ombra proprio su chi pretendeva di combattere il diavolo, mostrando come la linea di demarcazione tra il Bene e il Male a volte possa essere molto sottile: “considero la chiusura di questo racconto”, ha dichiarato il regista, “come uno dei finali più riusciti ed inquietanti dell’intera mia vicenda cinematografica”.
Non ce l’ho con te Mario ma quando leggo “… che Antonello Sarno ha definito uno dei migliori film horror “che l’Italia abbia prodotto dai tempi di Riccardo Freda (I vampiri, 1957) e Mario Bava (La maschera del demonio, 1960)” non posso sopportare cotanto pressappochismo!
Ma cosa c’entra “La casa dalle finestre che ridono” con un Horror?
Non si vede praticamente quasi per niente sangue, non c’è nella storia neanche mezza virgola di soprannaturale, perchè Horror?
E’ un giallo, un thriller, un film gotico se vogliamo ma certo non un Horror (genere che come nei giustamente citati “i Vampiri” e “La maschera del demonio” presuppone eventi narrativi con origine soprannaturale).
Poi che La casa dalle finestre che ridono inquieti e faccia paura alla grande è un altro discorso, capolavoro assoluto per me, ma…non horror.
Hai perfettamente ragione. Purtroppo quando si hanno poche battute a disposizione non è possibile essere del tutto esaurienti e fare tutte le dovute precisazioni. In questo caso bisognava distinguere tra film di paura, horror, thriller, gotico, ecc. Ma in poco spazio il rischio è quello di procedere per categorie generiche e non sempre esatte. Mi dispiace molto e ti ringrazio per la tua segnalazione.
Mario Galeotti è persona molto corretta e si è scusato per la sua definizione senz’altro un po’ limitativa, ma vorrei ricordarti, gentile Stefano, che lo stesso Pupi Avati, da me intervistato, ha parlato del suo film come di un “horror”