Non c’è da stupirsi se alla sua uscita nei cinema nel 1973 Il Lungo Addio (The Long Goodbye) non entusiasmò né critica né pubblico. Quando Robert Altman girò il film con un attore come Elliott Gould nei panni del detective privato Philip Marlowe il genere aveva già stilemi ben definiti, e il personaggio ispirato ai romanzi di Chandler aveva avuto una lunga e prestigiosa fila di predecessori, con interpreti del calibro di Humphrey Bogart, James Caan, James Garner, Robert Mitchum, Robert Montgomery e Dick Powell. L’occhio privato di Raymond Chandler e dei suoi precedenti interpreti era un detective dall’umorismo duro e scortese, con un vivace senso del grottesco e un disprezzo della meschinità e della mistificazione. Ed Elliott Gould rimane fedele a tutto questo, aggiungendo la sua levità accattivante ed empatica e definendo, nelle intenzioni del regista, un solitario che invece di raccontare il romanzo in dialoghi logorroici ne sottolinea i deragliamenti narrativi con un continuo e sommesso borbottio con se stesso.Oggi il film è considerato il capolavoro di Robert Altman e il punto di rottura definitivo con il genere imbalsamato del poliziesco hard boiled, attaccato ai fianchi dall’arguzia e perversità narrativa del regista americano.
Il Lungo Addio è un film ipnotico in cui la lentezza narrativa diventa un’ulteriore atout se unita, come in questo caso, alla costruzione esperta di un crescendo di tensione e coinvolgimento dello spettatore in una vicenda apparentemente semplice e talvolta incongruente. La trama è una rete di personaggi: il ricco playboy Terry Lennox, dopo un’improvvisata nel cuore della notte a casa di Marlowe, gli chiede di accompagnarlo a Tijuana. Marlowe acconsente senza nulla chiedere, in virtù della vecchia e leale amicizia che prova per Lennox. Ma la moglie dell’amico viene ritrovata morta e Marlowe finisce in carcere. Rilasciato dopo il suicidio dell’amico in Messico, il detective riceve la visita del malavitoso ebreo Marty Augustine e dei suoi scagnozzi, convinti che lui abbia il denaro che Lennox aveva portato con sé. Marlowe lo pedina fino alla casa sulla spiaggia di Malibu dello scrittore hemingwayiano Roger Wade e della moglie Eileen, e alla fine viene ingaggiato da Eileen per ritrovare Roger dopo che era fuggito in una non meglio identificata clinica per alcolisti. Cosa collega Lennox, la coppia di Malibu Beach e Augustine?
Inutile dire che ad Altaman poco importa che le diverse scene si intreccino strettamente per formare un intero, ma ne gira ognuna come se lo fossero. E’ la magia del regista che, come Hitchcock, pensava che non importa più di tanto la trama di un film. Ciò che più conta è che i personaggi siano funzionali l’uno all’altro.
Elliott Gould è sicuramente il più incerto e confuso dei Marlowe cinematografici, pronto a inciampare più volte nella trama e capace di fornire una rivisitazione sommamente ironica e talvolta magistrale del detective privato anni quaranta, con abito grigio e la cravatta stretta sulla camicia bianca. Fuori luogo e fuori tempo, come se fosse stato ripescato trent’anni dopo e catapultato in una storia dove ci sono belle ragazze figlie dei fiori che fanno yoga nude, mafiosi dalla crudeltà perversa e insensata e dove il polveroso personaggio dell’eroico detective senza macchia e dall’intuizione infallibile appiccica il naso ai vetri come i bambini, si nasconde nei cespugli e parla con il suo gatto rosso.
I dieci minuti iniziali, in cui Gould tenta di ingannare il suo gatto fingendo di servirgli la sua marca preferita, sono un pezzo di bravura assoluta. Naturalmente il gatto non ci casca, a differenza di Marlowe che pare capire ben poco del mondo marcio in cui vive, e questa sequenza gustosa anticipa il modo fanciullesco e quasi naïf in cui l’investigatore si districa nel labirinto degli indizi e dei personaggi.
Non ci sono gatti nel libro di Chandler, così come troviamo un suicidio al posto di un omicidio, e questa libertà iconoclasta di Altman è sottolineata dalla fotografia di Vilmos Zsigmond, che sovraespone i colori del film per renderli sbiaditi come in una dissolvenza, quasi a voler indicare che Marlowe fatica a percepire i colori vividi e le immagini ben definite. Emblematica è la sequenza in cui il dialogo tra i coniugi Wade è filmato attraverso la vetrata della villa di Malibu, vetrata che contemporaneamente riflette l’immagine di Gould in lontananza che saltella tra le onde che lambiscono il bagnasciuga.
Altman sembra intuire che i personaggi alla Chandler e alla Hammett nascondono una via di fuga per l’illiceità etica, e ribalta la situazione cambiando drasticamente il finale e facendo trionfare la sincerità un po’ ingenua ma pura e guidata da un solido codice morale del suo Marlowe. Non è questo il solo tradimento alla vicenda del romanzo. Oltre alle differenze già sottolineate il film presenta un paio di scene dalla violenza agghiacciante che hanno per protagonista il mafioso Marty Augustine, il cui modo estremamente logico e perbene di esprimersi insinua la stessa inquietudine cui ci ha abituati Scorsese (e anticipa anche i dialoghi alla Tarantino) nell’attesa di veder emergere la bestia selvaggia. Augustine, senza alcuna motivazione, fracassa una bottiglia sul volto della innocente fidanzata, sfregiandola. Il gesto è di una crudeltà così gratuita e inattesa da cogliere impreparato Marlowe stesso, a cui Augustine sibila: “E questa è una persona che amo. Pensa a quello che potrebbe succedere a te”.
Un elemento che contribuisce in modo decisivo al fascino di Il Lungo Addio è senza dubbio la musica di John Williams, e in particolare il motivo che dà il titolo al film, ripetuto ossessivamente con diversi arrangiamenti. L’altro tormentone è la frase “E’ ok per me”, con cui Marlowe chiosa tutte le situazioni poco chiare. La frase fu improvvisata da Elliot Gould e sia l’attore che Altman decisero di ripeterla quale ironico contraltare della torbida vita che gli gira intorno.
Perenne sigaretta in bocca, profondo senso dell’ironia e dello humour con cui sdrammatizza tutte le situzioni difficili, Elliot Gould è un Marlowe alieno e irridente al genere, e proprio per questo era stato scelto da Robert Altman. A riprova della volontà del regista di dissacrare il genere c’è ancora la musica, con quel “Urrà per Hollywood” che apre e chiude il film come in una beffa.
Una curiosità: nel film compaiono David Carradine nei panni di un carcerato e un giovane e ipertrofico Arnold Shwarzenegger in maglietta rossa tra i tirapiedi di Augustine. C’è anche il tempo di vedere il futuro governatore della California in mutande che esibisce il torace da body builder in un improvvisato spogliarello. Il suo nome non compariva nei crediti originali.
Il Lungo Addio è un film di cui è difficile non innamorarsi, e se è ok per Elliott Gould è ok per tutti noi.
giulio ferruti dice
Il lungo addio è uno dei miei film prediletti in giovinezza (e non soltanto), secondo a pochi, forse soltanto a “I compari”, dello stesso Altman, che per me ne è il vero, assoluto capolavoro.
Lamberto Riguzzi dice
Ho molto amato anche Gang e California poker e (come chi mi ha preceduto) I compari…
gli anni 70 sono stati una fucina di talenti e una miniera di film deliziosi: per chi amasse il genere suggerirei Chinatown (1974), La conversazione (1974), Bersaglio di notte (1975), Chi ucciderà Charlie Warrick? (1973), Una squillo per l’ispettore Klute (1971), Il mediatore (1974), Yakuza (1975), Marlowe il poliziotto privato (1975) … quest’ultimo non solo per ricordare quell’icona che è Robert Mitchum/Philip Marlowe ma per per una sequenza, palmo a palmo, in un appartamento desolato, in cui la camera a mano indaga una vita perduta nella miseria e nell’abbandono fino a scoprirne l’inevitabile esito, la morte violente…