Erminio Macario, il celebre comico torinese scomparso nel marzo del 1980, diceva della sua Torino: “Alla città ho sempre voluto bene, anche se a volte ho preso calci nel sedere”. E oggi le cose non sembrano essere cambiate molto, perché Torino non gli ha ancora dedicato una via o una piazza e non ha ancora provveduto a ricordarlo con una targa sulla facciata della casa in cui è nato, in via Botero. Come se non bastasse, il teatro Bomboniera di via Santa Teresa, voluto nel 1977 dall’attore per ospitare stabilmente la propria compagnia, dopo essersi trasformato negli anni Novanta in una discoteca ora è in stato di abbandono in attesa di un compratore.
“Mio padre Macario è stato dimenticato”, ha detto con profonda amarezza il figlio Mauro in una recente intervista. E’ davvero un gran peccato, perché Macario, col suo viso tondo e il ricciolino sulla fronte, quando intratteneva e divertiva il pubblico spesso lo faceva proprio con un inconfondibile accento piemontese. Non solo… il torinese Macario è stato un vero innovatore, a teatro e nel cinema. Speriamo che, avvicinandosi il quarantennale della sua morte, le istituzioni cittadine vogliano colmare questa grave lacuna.
Macario era solito parlar di sé come di un “missionario d’allegria”, una definizione concisa e azzeccata, ma tante altre descrizioni del personaggio Macario sono state date da giornalisti e colleghi, che con parole di stima hanno espresso il loro apprezzamento per quell’esile, fanciullesco “omino”. Ennio Flaiano, nel 1940, scrisse recensendo la rivista Carosello di donne: “Eccovi davanti un ragazzo in buona salute, con un principio di pancetta e gli occhi sinceri. Non c’è bisogno di forzare l’immaginazione per cominciare a divertirsi; basta il fatto che un tipo simile esista perché il buonumore vi conquisti!”. Alberto Savinio, fratello di Giorgio De Chirico, disse che a vederlo veniva voglia di “vestirlo da marinaretto, condurlo a scuola per mano, aiutarlo a fare i compiti, educarlo a riporre per benino la sera il suo abituccio sulla sedia e rincalzargli le coperte”.
Erminio Macario era nato il 27 maggio del 1902 nel vecchio quartiere di Porta Palazzo. Le sue prime esperienze teatrali le aveva avute intorno ai dodici anni, nell’oratorio salesiano di Don Bosco. Nel 1917, presso il circolo cattolico San Donato, diede vita a una compagnia amatoriale di recitazione e nello stesso tempo lavorava per aiutare la madre Albertina e le tre sorelle, dopo che il padre era partito per l’America. Nel 1919 decise di fare del teatro la sua vita. Rispondendo a un annuncio, lasciò la sua Torino per recarsi a Belgioioso dove entrò a far parte della compagnia di guitti del cavalier Salvetti, un gruppo di attori girovaghi che si esibivano in posti sperduti, in paesini di provincia e che, tra stenti e digiuni forzati, proponevano un repertorio fatto principalmente di drammoni strappalacrime, farse, storie di cappa e spada. L’esperienza durò fino al 1923, anno in cui Macario tornò nella sua città per debuttare nel genere che più lo avrebbe contraddistinto: la rivista. Dapprima lavorò nella compagnia del coreografo e ballerino Giovanni Molasso e poi, nel 1925, fu scritturato dalla mitica Isa Bluette. Il debutto come autore e capocomico risale al 1929 con la rivista La scoperta del mappamondo.
Macario era considerato l’inventore della rivista femminile. Nei suoi allestimenti la presenza di ballerine e soubrette, le cosiddette “donnine”, non era soltanto un mero contorno, ma qualcosa di più. L’attore si attorniava di ragazze anche durante i suoi numeri comici, proponendo con gusto ed eleganza una femminilità che non era mai volgare o svilente e dove i sottintesi erotici non rischiavano mai di diventare offensivi.
A metà degli anni Trenta si parlò molto della rivista Mondo allegro, scritta dalla coppia Ripp e Bel-Ami, talmente sfarzosa da competere in grandiosità con gli spettacoli dei fratelli austriaci Schwartz. Nei primi anni Cinquanta, invece, la rivista Votate per Venere portò Macario anche a Parigi, dove ad applaudirlo ci fu il regista Jean Renoir, che gli disse: “Per fare un film, mi basterebbe una strada, un carretto e te”. Ma nonostante la sua fama fosse legata alla commedia musicale, nel corso della sua lunga carriera il comico piemontese è tornato più volte alla prosa, il genere in cui aveva esordito, ed è stato anche un volto amatissimo del cinema e della televisione.
Non si sbaglia affermando che Macario abbia inventato il cinema comico italiano. Dopo il debutto nel film di Eugenio De Liguoro Aria di paese (1933), dove propose un personaggio a metà tra Charlie Chaplin e Harry Langdon senza però riscuotere alcun successo (come disse lo stesso Macario, per colpa di “una certa ingenuità e per la mancanza delle gag, delle trovate”), i film interpretati tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta furono un trionfo: Imputato, alzatevi! (1939), Lo vedi come sei? (1939), Non me lo dire! (1940), Il pirata sono io! (1940), tutti diretti da Mario Mattoli, Il chiromante di Oreste Biancoli (1941), Il fanciullo del West di Giorgio Ferroni (1943). Pellicole nelle quali Macario riuscì a fare sfoggio di una irresistibile vena surreale, grazie anche al prezioso contributo di umoristi come Vittorio Metz e Giovanni Mosca che, provenendo dalla pagine del «Marc’Aurelio» e del «Bertoldo», collaborarono all’elaborazione dei soggetti. Aveva perfettamente ragione Macario quando diceva: “Io facevo Jonesco quando Jonesco quasi non era nato”. Dialoghi e gesti strampalati anticiparono davvero il teatro dell’assurdo, e alcuni suoi tormentoni come “Lo vedi come sei? Lo vedi come sei?” rimasero a lungo nei ricordi e nelle abitudini del grande pubblico. Nei film del dopoguerra diretti da Carlo Borghesio (Come persi la guerra, 1947, L’eroe della strada, 1948, Come scopersi l’America, 1949, Il monello della strada, 1951) il personaggio cinematografico di Macario andò trasformandosi e, pur conservando in parte il carattere surreale, si rifece nuovamente al prototipo chapliniano, epurato però di ogni cattiveria. Perché se Charlot sapeva essere astuto e vendicativo, Macario era sempre buono e ingenuo: creatura dolce, stralunata, crepuscolare.
Dopo aver lavorato anche al fianco di Nino Taranto, Aldo Fabrizi e Totò e aver dato ottima prova in un ruolo drammatico (Italia piccola di Mario Soldati, 1957), l’ultimo film di Macario fu, nel 1976, Due sul pianerottolo, versione cinematografica dell’omonima commedia di Mario Amendola e Bruno Corbucci portata a teatro, l’anno prima, insieme a Rita Pavone. L’ultimo suo spettacolo teatrale, nella stagione 1979/80, è stato Oplà, giochiamo insieme, per la regia del figlio Mauro.
Benjamin Mattiuzzo dice
l’umorismo di Macario e’ stato per me fin da bambino la comicita’ che fa ridere gli innocenti.Lo ricordo ,visto per la prima volta nel film”l organetto del vagabondo” piacevole ricordo piu’di 70 anni dopo.C’e’qui in Canada un suo sosia, che me lo ricorda ogni qualvolta lo incontro.Se avessi i fondi gli farei erigere una statua nella mia Treviso,accanto a quella di Mario Dal
Monaco.Grazie per la bella recensione.Saluti,Ben Mattiuzzo
Mario Galeotti dice
Grazie a lei per il suo bellissimo messaggio e per il suo ricordo personale del grande Macario!!
Mirko dice
Sarebbe bello che un regista della stregua di Bruno Corbucci, se esistesse ancora, facesse un film sulla vita e l’opera, soprattutto! di Macario. Io ne scriverei i dialoghi gratis…! O almeno che dessero i suoi film e le sue commedie in TV!
fabrizio morea dice
E’ vero, Torino ha dimenticato troppo in fretta il grande Macario. Lo ricorderà invece il ‘paese dipinto’ di Legro d’Orta con un ritratto-caricatura che verrà posta nella “Galleria degli artisti” prossimamente.
Per info 335 6509294
Fabrizio Morea
Pres. Accademia delle Arti E.T.S.