Sul manifesto della trentasettesima edizione del Torino Film Festival, in programma dal 22 al 30 novembre, campeggia il volto ammaliante e misterioso in bianco e nero di una donna, coperto per metà dai lunghi capelli scuri, mentre nell’altra metà un occhio grande e languido con ciglia folte guarda fuori campo, con un’ambigua espressione impaurita e terrificante al tempo stesso. I cultori del genere horror non avranno certo faticato a riconoscere quel volto: si tratta dell’attrice britannica Barbara Steele, che negli anni Sessanta fu l’acclamata protagonista della grande stagione del gotico italiano.
Mercoledì 27, al Cinema Massimo di via Giuseppe Verdi a Torino, l’ottantunenne attrice, ospite speciale della rassegna, ha ricevuto dalle mani di Gianni Amelio il Gran Premio Torino e la cerimonia è stata seguita dalla proiezione del film di Mario Bava La maschera del demonio (1960), l’intramontabile cult movie che segnò il felice battesimo di Barbara Steele nel cinema dell’orrore nel doppio ruolo di una strega riportata casualmente in vita a due secoli di distanza dalla condanna al rogo e della sua pronipote Katia, a lei straordinariamente somigliante.
Il giorno prima l’attrice aveva presenziato alla proiezione in lingua originale di un altro eccellente capitolo della sua carriera, Il pozzo e il pendolo di Roger Corman (1961), uno dei film che compongono l’interessante retrospettiva dal titolo Si può fare! che quest’anno il Festival ha voluto dedicare all’horror classico tra gli anni Venti e gli anni Settanta con una selezione delle più celebri pellicole della Universal, della Hammer e del gotico nostrano. Venerdì 29 la Steele presenterà al pubblico un altro suo film di culto, L’orribile segreto del Dr. Hichcock di Riccardo Freda (1962). E Riccardo Freda è proprio il regista che l’attrice ricorda con più affetto. In una intervista al quotidiano «La Repubblica» curata da Arianna Finos, lo ha definito “un’anima inquieta, mai ferma, uno spirito folle. Ci comprendevamo perfettamente, eravamo sulla stessa lunghezza d’onda”. Barbara Steele ha poi scherzato sui manifesti del festival e ha detto che, trovando al suo arrivo la città tappezzata con la propria foto, si è sentita “a metà tra Gloria Swanson e Mussolini”.
Nata il 29 dicembre del 1937 a Birkenhead, nella contea inglese del Merseyside, Barbara Steele ha studiato arte e pittura, un tipo di formazione che poi è stata utile nella sua carriera di attrice perché le ha conferito una sensibilità che le ha permesso di comprendere alcuni aspetti fondamentali nella realizzazione di un film. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, dopo aver frequentato una piccola compagnia teatrale, ha esordito nel cinema inglese con Uno straniero a Cambridge di Wolf Rilla (1958) e dopo altri tre film girati in patria Mario Bava la scelse per interpretare il suo esordio alla regia nel lungometraggio, La maschera del demonio, un capolavoro assoluto ch’ebbe più successo all’estero che in Italia, con un linguaggio cinematografico niente affatto scontato per l’epoca: una fotografia in bianco e nero esaltante ch’era evidentemente il frutto della lunga esperienza di Bava in fatto di illuminazione ed effetti speciali, la mobilità della macchina da presa con panoramiche, carrelli e dollies, brevi dettagli raccapriccianti che introducevano una visione nuova rispetto all’espediente classico dell’ellissi. La maschera del demonio è considerato il capostipite dell’horror gotico italiano e con il doppio ruolo di Asa/Katia, seducente e virginale, peccatrice e immacolata, Barbara Steele si è subito imposta nel genere diventando quella che Tim Burton ha definito “l’unica, vera diva horror senza tempo”.
Dopo essere stata chiamata da Roger Corman per recitare al fianco di Vincent Price in uno dei film del ciclo dedicato a Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo, l’attrice è tornata in Italia per lavorare con altri maestri del gotico, quel cinema – per intenderci – fatto principalmente di castelli, fantasmi, vampiri, cimiteri e tutti quei temi mutuati dalla tradizione letteraria del fantastico: il già citato L’orribile segreto del Dr. Hichcock di Riccardo Freda, Lo spettro dello stesso Freda (1963), I lunghi capelli della morte e Danza macabra di Antonio Margheriti (1964), 5 tombe per un medium di Massimo Pupillo (1965), Amanti d’oltretomba di Mario Caiano (1965), Un angelo per Satana di Camillo Mastrocinque (1966). La parentesi italiana è stata il momento più bello della sua vita e della sua carriera, parole di Barbara Steele, che ha ricordato come in quel periodo in Italia ci fosse un’esplosione geniale di energie e creatività, tutto era spontaneo e autentico. Lavorò anche con Federico Fellini in 8 ½ (1963) e Monicelli la volle in una breve apparizione nel film L’armata Brancaleone (1966).
Alla fine degli anni Sessanta sposò lo sceneggiatore americano James Poe (morto nel 1980) e si allontanò momentaneamente dal mondo del cinema, per farvi ritorno nel 1974 con Femmine in gabbia di Jonatham Demme. Da allora è riapparsa sul grande schermo di tanto in tanto, da Il demone sotto la pelle (1975) diretto dall’alfiere dell’horror moderno David Cronenberg a Piranha di Joe Dante (1978), fino al recente Lost River di Ryan Gosling (2014).
Oggi Torino l’ha accolta con entusiasmo: Barbara Steele, un’attrice che è testimone vivente (e in splendida forma) di un’epoca irripetibile, una stagione del cinema italiano di cui forse presto leggeremo storie e aneddoti in una progettata autobiografia.
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