E’ il personaggio dell’alieno nel telefilm di successo Mork e Mindy a rappresentare per il comico improvvisatore Robin Williams il ponte verso il mondo del cinema, con il ruolo di Braccio di ferro nell’adattamento che Robert Altman trae della striscia a fumetto di E. C. Segar, per un film sceneggiato dall’umorista Jules Feiffer.
La Paramount giudicherà il film un mezzo flop, ma in realtà Popeye (1980) è da rivedere con sguardo non condizionato, anche perché coglie bene lo spirito della collaborazione tra Altman e Williams, i quali hanno in mente un film libero e fantasmagorico, in cui l’improvvisazione sfrenata di Williams si fonde con il talento di Altman per le composizioni collettive e se il film è imperfetto non mancano validi motivi di interesse. Popeye è una composizione fantasmagorica e anarchica, come lo è l’intenzione di Altman e Williams, che in questo caso si trovano in sintonia con lo spirito dei bambini, ovverosia, con degli americani che in Altman sono adulti perennemente bambini.
Mentre Williams, istrionico e clownesco, è un’ideale paladino delle strisce disegnate, volto buffo con l’occhio destro sbarrato e l’immancabile pipa, Altman applica il suo gusto alla struttura del musical tradizionale, ed ottiene un film giocoso e -volutamente – un po’ fracassone, dove le canzoni si inseriscono con gusto nella narrazione, fanno da grancassa alle risate e permettono di colorare il ritratto della comunità di Swteethaven nei toni una critica evidente ad alcune contraddizioni dell’America della nostra epoca ma anche di quella delle strisce.
Conosciuto come un mezzo disastro, il film in realtà non lo fu in assoluto. Ottenne un incasso globale di sessanta milioni di dollari nel 1981 (il film uscì dapprima negli Stati Uniti nel dicembre del 1980), a fronte dei 20 milioni del budget. Il problema fu che la Paramount e la Disney si aspettavano un incasso nettamente più alto per un blockbuster, e fu quindi etichettato come flop. In verità le cose stavano cambiando nel cinema americano di questi anni, e il 1980 si ricorda come l’anno del clamoroso flop de I cancelli del cielo di Michael Cimino, capolavoro tormentato che sarà recuperato dalla critica soltanto molti anni dopo, ma che viene utilizzato come capro espiatorio per togliere dalle mani dei registi-autori il controllo delle pellicole, soprattuto quando si scoprono così ambiziose e di grande respiro. Due dei più noti critici cinematografici restituiscono comunque pareri opposti sul film di Altman. Leonard Maltin scrive che “L’amato marinaio di E.C. Segar si imbarca su una nave che affonda in questo film sorprendentemente noioso. Un coraggioso cast fa del suo meglio con una sceneggiatura poco divertente, una scenografia ingombra e alcune sedicenti canzoni.”. Roger Ebert invece loda Shelley Duvall, “nata per interpretare Olive Oyl”, sostenendo che con il suo film Altman avrebbe dimostrato come sia possibile trasformare anche un fumetto in un “intrattenimento sofisticato”.
Oggi è inevitabile riconoscere aspetti di interesse del film: dall’originalità inventiva, alla critica al sistema americano palesato anche dalla questione economica (nella comunità c’è persino un “rifugio anti-tasse”), alla bellicosità e all’ignoranza belluina raffigurate, alla dipendenza dal cibo che Poldo riassume bonariamente. Nel disegno del villaggio di Sweethaven, costruito ad hoc per il film, Altman si è divertito con furbizia a portare la storia di Popeye sul grande schermo e con personaggi reali. Questa parodia del villaggio e dei buoni sentimenti rivisita le atmosfere tanto del fumetto che del cartoon che ne seguì, trasformando l’America nella striscia disegnata di se stessa, e utilizzando un ménage a trois che si sorregge su un cast in cui mentre Shelley Duvall, fresca reduce di Shining (1980), è un’Olivia da manuale, disorientante e volubile, Robin Williams, nella sua parlata tutta slang e tic, coglie il carisma del personaggio allineandosi con perfidia al disegno altmaniano. Tutto appare più inquietante rispetto al cartoon (con cui il film ha propriamente inizio, nella sequenza che vede Braccio di ferro sorprendersi per essere capitato in un altro tipo di cinema!).
Popeye arriva al villaggio alla ricerca del padre e, come dice, si ritrova ad essere “una madre”, pronto ad accudire il tenero attento Pisellino recapitatogli da una donna che con un biglietto annuncia al marinaio che tornerà non prima di venticinque anni. Nel villaggio il padre burbero si rifiuta ostinatamente al figlio Popeye che affettuosamente lo cerca, e una volta ritrovato nega di essere la fotocopia del figlio, mentre questi, che non ha mai voluto mangiare gli spinaci, è costretto da Brutus a mangiarli per riscoprire una forza favolosa e liberare tutta la banda dalla piovra minacciosa. I pugni ritrovati rappresentano un risveglio che presagisce altri futuri ritrovamenti nei personaggi di Williams, altri “disgeli” e cambiamenti, ma qui gli spinaci sono la formuletta che sancisce la chiusura del cerchio di un mondo di fumetti, espressione di una cultura che Altman, il regista di M*A*S*H* (1970) e Nashville (1975), dileggia nel suo film-carillon.
Se Popeye appare ai critici confuso e noioso, il cineasta provoca mettendo in bella mostra i difetti di questa comunità in cui la violenza è in ogni angolo, tra ubriachi, gradassi e bulimici; lo stesso protagonista è affetto da strabismo e impedimento al linguaggio, e delle sue origini nessuno si preoccupa, così come il suo aspetto grottesco non è fonte di preoccupazione per Olive Oyl, affetta da un disturbo alimentare. In nessun franchise d’animazione si ritrova una sequenza di bordello come quella del film e sicuramente pecca perlomeno di indulgenza chi, rivedendo il film con Robin Williams, parla di un’irriverenza presto addomesticata nelle successive metamorfosi dell’attore. Qui l’irriverenza c’è, distillata nell’opera di riscrittura e adattamento di un tavola disegnata per il grande schermo. Il film, con la fotografia felliniana di Giuseppe Rotunno, cerca di impaginare la fantasmagoria in una successione di situazioni dove siamo spettatori di un ordine caotico perlustrato come una pittura in movimento, mentre persino le incongruenze narrative restituiscono il sapore, magari un po’ difficile da digerire per gli spettatori avvezzi al blockbuster più facile, di una scena in cui il senso si è smarrito nel non-senso della comunità portata alla berlina.
Popeye ricorda nel film di Altman come il padre da bambino lo facesse volare in aria e qualche volta anche cadere in terra. Il successivo lavoro cinematografico in cui Robin Williams si avventura inizia propriamente con le immagini di un bebè nudo che volteggia in un limbo etereo, forse in attesa di crescere e di trovare quel genitore che possa considerarsi davvero tale. Tra padri che si negano (Popeye) e padri programmaticamente evitati da madri femministe (Il mondo secondo Garp), Williams, che appare nell’immaginario comune su un uovo – simbolo dell’anima – in Mork e Mindy, coglie al volo il nuovo palcoscenico dei set cinematografici anche per cercare ruoli che in qualche modo trovino assonanza con la sua sensibilità; affronta gli anni dopo gli studi alla Juillard School di New York impegnandosi a mostrare come sia assurdo il mondo di guerre e conformismi, oppressioni e vanità che ci portiamo addosso, e si mette al servizio di personaggi che lo portano inevitabilmente a mostrare parti non conosciute di sé, a cercare confronti con figure che presto assumeranno risonanze significative anche per chi condividerà i loro percorsi.
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