In The Terminal (2004), Tom Hanks è Victor Navorsky, un transfuga dall’Europa dell’Est che, una volta sbarcato all’aeroporto di New York, scopre come il suo paese d’origine sia dichiarato inesistente a causa della fine della guerra. Senza documenti validi, senza lavoro e senza punti di riferimento nell’America che avrebbe dovuto accoglierlo, Viktor impara a sopravvivere in quell’inaspettato “non-luogo”, ad affrontare attimo dopo attimo la vita dando importanza alle sensazioni immediate, le stesse che gli suggeriscono di trovare riparo stabilmente tra gli spazi dell’aeroporto, dove fa amicizia con i lavoratori e si innamora di una bella hostess. Tom Hanks, in una situazione che lo riavvicina allo spaesamento di Forrest Gump (1994), cerca approdi dopo il naufragio di solitudine di Cast Away (2000), film metaforico e singolare sulla percezione del tempo cucito sulle spalle dell’interprete nuovamente ad opera di Robert Zemeckis, in cui Hanks è l’ingegnere Chuck Noland della Federal Express, multinazionale che spedisce e consegna a tempi record, pacchi, buste e plichi in ogni angolo del pianeta. Quando un giorno, mentre sta volando sull’oceano per raggiungere una sede periferia dell’azienda, il suo aereo precipita in mare, Chuck è costretto a sopravvivere fortunosamente su un piccolo apollo disabitato, luogo della solitudine in cui si ritrova privo di qualunque oggetto che lo aiuti nelle necessità quotidiane.
Un singolare parallelismo con il nostro presente vede Tom Hanks interprete di due momenti significativamente accomunati dall’affermazione di nuovi confini per l’esistenza del singolo coinvolto in inquietudini di portata collettiva: in The Terminal, la vita forzata in un non-luogo, l’aeroporto scenario di comunicazioni possibili e di aspettative iperconnesse, in attesa che la “normalità” si ristabilisca; in Cast Away l’esilio, isolamento, nel segno di un destino imperscrutabile in cui l’unico confidente è un pallone da volley trasformato in un “amico immaginario” con cui dialogare. In Zemeckis, il protagonista, quando riesce a fuggire dall’isola e a tornare nel mondo civile, avverte come il reinserimento possa essere molto più difficile di quanto non sia stata la sopravvivenza sull’isola deserta. E in The Terminal, non meno che in Cast Away, lo scenario della società che si prospetta al brancolante protagonista è immersione in un teatro di rapporti messi in scacco da circostanze che sfuggono al controllo, come il tempo che fa strani scherzi (e sarebbe forse bello poter ripercorrere come nel “sogno/incubo” di Ritorno al futuro), dove l’individuo si ritrova “no land”, espressione del mondo globalizzato che, mentre lotta contro i confini spazio-temporali (in quanto transfuga o manager) tenta di ricreare nell’aeroporto, o nell’isola sperduta del pacifico, momenti di una comunità dai confini immaginari. Al centro di questi spazi di angoscia – mascherata dalla luminosità di un sociale evocato come assenza di rapporti reali -, ritroviamo però la corporeità di Tom Hanks, attore feticcio di Spielberg-Zemeckis, tramite per ridestare una rinascita dei sensi e dell’esistenza, antidoto umanistico contro il dominio di non-luoghi e dimensioni artificiali.
Se Cast Away, pur accolto dalla maggior parte della critica come una riproduzione contemporanea del mito di Robinson Crusoe, rispetto all’eroe inventato nel 1719 dallo scrittore inglese Daniel Defoe opera non poche trasformazioni, soprattutto quella del protagonista, da prototipo del capitalista a individuo calato nella dimensione liquida della globalizzazione, The Terminal, che esce quattro anni dopo il film di Zemeckis, ritrova Spielberg attento a non perdere di vista le sfumature del racconto nel proporre le sospensioni di una vicenda tutta calata dentro le inquietudini planetarie del regista, in una commedia paradossale che tanto paradossale poi non è, rinnovando la tradizione del cinema sospeso in territori di speranza. Come un film di fanta-utopia, vicino alle inquietudini di fine della civiltà, di crollo di templi che hanno dominato l’epoca contemporanea, The Terminal fa discutere alla sua uscita i sociologi per l’attualità del tema e la vocazione “planetaria”. L’aeroporto sembra il perfetto meandro sospeso in cui prende spazio la dis-percezione del confine reale-immaginario tra i paesi e le diverse strategie comunicative del globo, tra il passato e il futuro, tra il dentro e il fuori, tra il qui e un altrove sempre (im)possibile.
Dopo la corsa senza tregua che caratterizzava gli anni Sessanta di Prova a prendermi (2002), così laboriosi e divorati dalle promesse riparatrici del boom economico e dai sogni mirabolanti di agiatezza, è un’altra situazione a dominare il Duemila divorato dai contrasti: una condizione di perpetua sospensione etica, dove le persone vivono e si muovono lontane dai progetti a lungo termine, straniate e confuse, spaventate e inebetite, nonché allontanate dagli aspetti più immediati, concreti di una realtà che sembra sfuggire di mano ad ogni istante. E’ una realtà filtrata, mediata dalle tecnologie, resa inerte dalla percezione inabissata delle emozioni. Naturalmente Spielberg propende per una nota di speranza, lasciando intravedere il sorgere di un nuovo mondo in questi territori al contempo alienati e multietnici. Metafisico, sospeso in immagini limpide e avvolgenti, a tratti edulcorante nel desiderio di non archiviare l’America Dream malgrado le rigide regole che escludono e possono ancora delimitare ghetti, The Terminal ci racconta un’esperienza straordinaria oggi comunissima: il confronto-incontro con l’altro che ci viene a chiamare come un sorta di alieno-immigrato della porta-nazione accanto. E.T. non viaggia più tra le stelle, ma prende l’aereo e si trova a vivere, eterno fuggiasco, in un mondo devastato dai conflitti.
Il regista riconferma una volta di più la sua ossessione per gli aerei, metafora di comunicazione e abbandono al divenire, che rappresentano altresì l’unione tra la terra e il cielo, tra il mondo reale e quello immaginario del suo cinema, ma anche, soprattutto, tra la vita e la morte. Dopo Always (1989), The Terminal è ancora un film sui sentimenti (buoni o cattivi), sulla perdita e l’abbandono, che individua nell’aeroporto l’ambiente adatto per parlare, come in un set necessariamente virtuale e cinematograficamente virtuoso, di incontri assoluti, di momenti apparentemente fuggevoli eppure destinati a rimanere impressi nella memoria di chi li vive. L’aeroporto, luogo per eccellenza della non permanenza, riporta echi di nostalgia, riverberi di assenze arcane oltre che di vuoti incolmabili, sensazioni di una famiglia dispersa e possibile. I personaggi di Spielberg, nella necessità di conferme in una vita dispersa in mille direzioni divergenti, paiono, ancora una volta, individui privati degli affetti più importanti, e l’incontro con l’altro ha per loro il valore di una rinascita nel teatro virtualizzato e frenetico degli incontri. All’interno di una filmografia spettacolare, attraversata dal culto per gli sconvolgimenti collettivi, The Terminal intreccia ossessioni personali (il senso di estraneità vissuto da chi sperimenta il distacco dalla “famiglia”-cultura d’origine), con inquietudini di portata planetaria, confermando Spielberg come un irriducibile “ragazzaccio” di Hollywood immenso nello spirito del suo tempo.
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