Chissà come sta vivendo questa apocalisse virologica del covid19 Gianrico Tedeschi, l’attore milanese che il 20 aprile taglierà l’invidiabile traguardo dei cent’anni. Lui che ha vissuto sulla sua pelle il dramma della seconda guerra mondiale e dei campi di concentramento nazisti, aveva detto in un’intervista in occasione dello spettacolo Dipartita finale scritto da Franco Branciaroli: “Di fronte all’apocalisse della civiltà ho provato dolore, impotenza, compassione. Mai disperazione” («Corriere della Sera», 2 giugno 2015).
Mandato a combattere in Grecia (“due anni trascorsi in un’inutile, buffonesca caccia a partigiani greci che non si trovavano mai”), dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943 venne catturato dai tedeschi e, bollato come traditore (IMI, Internati Militari Italiani), conobbe la prigionia in tre campi: Beniaminovo e Sandbostel in Polonia, Wietsendorf in Germania. Perché come dice il vecchio partigiano nella commedia Farà giorno, “il mondo è un po’ stronzo”. La storia di questo calvario è raccontata nel libro Gianrico Tedeschi. Due anni nei campi nazisti, a cura di Maria Immacolata Macioti (ANRP – Mediascape, 2019), nella consapevolezza che non bisogna mai dimenticare quello che è accaduto: “se finisce la memoria, finisce la vita”.
Cattolico credente, riuscì ad andare avanti grazie alla fede ma anche grazie al teatro, quel teatro che lui fin da bambino frequentava come spettatore tutte le domeniche nella sua Milano, insieme al padre. Proprio a Sandbostel, infatti, per reagire alla fame, alla paura, alle privazioni, improvvisò insieme ad alcuni suoi compagni (tra i quali gli illustri Giovannino Guareschi, Alessandro Natta, il filosofo Enzo Paci, il critico teatrale Roberto Rebora) tre rappresentazioni teatrali, stranamente consentite dai nazisti in quel cupo clima di odio e prevaricazione: Enrico IV e L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, Spettri di Henrik Ibsen. Il teatro per la vita, per usare un’espressione presa a prestito dal titolo di un libro che recentemente la figlia Enrica ha dedicato al padre: Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi (Edizioni Viella, 2019). Il tenente Gianrico Tedeschi non aveva mai recitato prima di quel momento e non sapeva che, finita la guerra, era destinato a intraprendere una lunga carriera durata quasi settant’anni. Era stato proprio Rebora a esortarlo a fare l’attore professionista. E così fu.
Cresciuto in una famiglia umile, già studente della facoltà di magistero alla Cattolica di Milano prima della guerra, maestro di scuola, dopo la Liberazione prese sul serio i consigli dell’amico e andò a Roma per frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica diretta da Silvio D’Amico. In quel periodo fu chiamato a partecipare all’allestimento dell’Edipo Re al Teatro Olimpico di Vicenza, per la regia di Guido Salvini, con protagonisti Renzo Ricci, Andreina Pagnani, Ruggero Ruggeri e una compagnia di attori di cui facevano parte anche Carlo Ninchi e Arnoldo Foà. Si trattò del debutto ufficiale di Gianrico Tedeschi nel 1948.
Da allora e fino al recente Dipartita finale portato in scena nella stagione 2015/2016, è stato un susseguirsi di ruoli e generi diversissimi, dal comico al tragico passando per la rivista e la commedia musicale di Garinei e Giovannini (pensiamo almeno a Enrico ’61). Nel 1964 interpretò il professor Higgins nell’allestimento italiano del musical My Fair Lady di Alan Jay Lerner. Ha calcato le scene al fianco di grandi attori – Gino Cervi, Anna Magnani, Paolo Stoppa, Delia Scala, Renato Rascel, Ugo Tognazzi, Memmo Carotenuto, Marcello Mastroianni, Nino Manfredi, Walter Chiari, Ugo Pagliai, l’amica Franca Valeri – e ha lavorato con registi di alto livello: Orazio Costa (La dodicesima notte), Luchino Visconti (La locandiera, Medea, Tre sorelle), Giorgio Strehler (La vedova scaltra, L’opera da tre soldi, Arlecchino servitore di due padroni), Luigi Squarzina (Il cardinale Lambertini), Luca Ronconi (La compagnia degli uomini, che gli valse il Premio Ubu come miglior attore nella stagione 2010/2011).
Attore poliedrico (una caratteristica che secondo certa intellighenzia non era un pregio) è stato interprete della prosa televisiva in regie di Corrado Pavolini (La scuola delle mogli, 1955), Antonello Falqui (La vedova allegra, 1968), Vito Molinari (L’acqua cheta, 1974) ed è apparso in alcuni sceneggiati Rai di successo: Delitto e castigo di Dostoevskij (1963, regia di Anton Giulio Majano), Demetrio Pianelli (1963, di Sandro Bolchi). Ma anche il cinema si accorse presto di quell’attore spigliato e versatile e così, a distanza di poco tempo dal suo debutto teatrale, Tedeschi esordì sul grande schermo con un piccolo ruolo nel film di Mario Mattoli Il padrone del vapore (1951). Da allora ha affiancato la sua intensa attività teatrale con una più sporadica carriera cinematografica, recitando in oltre quaranta pellicole: esperienza che lo costrinse suo malgrado ad alzarsi presto la mattina, cosa alla quale non era abituato. In gran parte si tratta di commedie leggere che portano la firma, tra gli altri, di Steno (Susanna tutta panna, 1957; Femmine tre volte, 1957; L’uccello migratore, 1972; Dottor Jekyll e gentile signora, 1979), Gianni Puccini (Carmela è una bambola, 1958; L’impiegato, 1960), Pasquale Festa Campanile (Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare, 1968; Il merlo maschio, 1971), Giorgio Bianchi (I 4 tassisti, 1963).
Oltre ad essere apparso nelle vesti di un insolito barone Frankenstein nel discutibile Frankenstein all’italiana di Armando Crispino (1975), non sono mancati momenti artisticamente più alti anche al cinema, come la parte di Stefano nel film drammatico di Antonio Pietrangeli Adua e le compagne (1960) sulla condizione delle prostitute in Italia dopo la chiusura delle case di tolleranza, lo psichiatra in uno degli episodi del film Ro.Go.Pa.G. (1963, episodio Illibatezza di Roberto Rossellini), il ruolo dell’eremita Pantaleo in Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli (1970) o il Furlan di Viva La libertà (2013), un film di Roberto Andò con Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, che si aggiudicò due Nastri d’ Argento (uno a Servillo e uno per la miglior sceneggiatura a Roberto Andò e Angelo Pasquini) e due David di Donatello (miglior sceneggiatura e miglior attore non protagonista Mastandrea). Da ricordare, infine, la partecipazione di Gianrico Tedeschi ad alcuni film diretti dal geniale e ironico Luciano Salce, l’indimenticato attore, regista e sceneggiatore romano di cui da pochi mesi si è celebrato il trentennale dalla scomparsa: Il federale (1961), Come imparai ad amare le donne (1966), La presidentessa (1977). Durante la guerra anche Luciano Salce, come Tedeschi, conobbe l’incubo della prigionia in un campo di concentramento, un’esperienza che però nel suo caso ebbe ripercussioni addirittura sulla sua fisionomia, provocandogli una deformazione permanente alla bocca dopo che i nazisti gli estrassero a forza l’oro delle protesi.
Testimonial delle caramelle Sperlari in un noto Carosello e poi, in anni più recenti, simpatico nonno negli spot pubblicitari di un formaggio spalmabile, Gianrico Tedeschi non ha mai rinnegato il fatto di aver prestato il proprio volto alla promozione di prodotti commerciali: dopo tutto non era altro che un modo onesto per consentire a un attore di sopravvivere tra una scena teatrale o cinematografica e l’altra.
Eterno bambino, come tanti artisti, ora che compie un secolo di vita Gianrico Tedeschi ha sempre in testa il teatro. L’addio alle scene è di quattro anni fa, ma il teatro gli manca e, come riferisce la figlia Enrica, ogni tanto “ci chiede in quale piazza deve recitare” («Corriere della Sera», 11 aprile 2020), anche se fare teatro voleva dire sentire dentro di sé tutte le sere la stessa paura, la stessa ansia da prestazione. Al fianco della moglie Marianella Laszlo, nell’isolamento della sua casa di Pettenasco sul Lago d’Orta, probabilmente sta osservando questo mondo sconvolto dalla pandemia con gli occhi di un fanciullo, “giocoso ma anche riflessivo” come dice sua figlia, dotato di una saggezza e di una spiritualità che in un momento così difficile ci possono venire in aiuto ricordando alcune sue parole pronunciate tempo addietro: “Il mio invito è a non arrendersi mai, ad andare sempre avanti, soprattutto con l’arte e con la cultura. Altrimenti si muore davvero” («Avvenire», 31 luglio 2019).
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