L’ottima interpretazione di Aris Servetalis modula la sorprendente opera prima di Christos Nikou, già assistente di Yorgos Lanthimos, che si porta in territori cari alla new ellenica evitando ogni manierismo attraverso uno sguardo originale, capace di osare una via singolare con sprazzi di estrosità. In Mele ci troviamo dinanzi a una condizione di distonia lontana dalle forzature fastidiose della Sci Fi spettacolare ma ansiosa di descrivere l’avvento di una pandemia in cui gli individui perdono la memoria.
Concepito e realizzato prima del Covid, Mele coglie una profonda continuità con la filmografia ellenica, a cominciare dal responsabile del reparto e dalla dottoressa che si occupano del recupero dei pazienti amnesici, individui che preparano innanzitutto un programma di “reinserimento” che in realtà persegue la creazione di una nuova identità al posto della preesistente: team che fa pensare innanzitutto all’equipe disturbante di Alps di Lanthimos. Veri e propri programmi di condizionamento definiscono in Mele le nuove esistenze, a cominciare dalle audiocassette che indicano di volta in volta all’amnesico Aris i compiti di quella che viene indicata come una cura ma che appare sempre di più come una forma di manipolazione. Gli incontri sociali che vediamo nel film sono allora dettati dalle stesse regole seguite da altri: è il caso della donna che invita Aris a ballare e poi fare del sesso la quale sta evidentemente seguendo l’analogo programma di ricondizionamento seguito dall’uomo.
Nikou non spiega, segue Aris nel proposito-ossessione di fotografare momenti di vita che finiranno nel diario della sua nuova memoria. L’ambientazione sembra un passato molto recente, comunque privo di computer o smartphone, a segnare l’atemporalità e la conseguente universalità della condizione vissuta. Ma Nikou trova una sua cifra personale con momenti capaci di lasciar trasparire la partecipazione umana del protagonista, interprete singolare ed inquietante già in Kinetta e in Alps, questa volta portatore delle inquietudini di un individuo pronto a cambiare strada, a cogliere sprazzi di auto-consapevolezza sin dallo spunto, apparentemente banale, offertogli dal fruttivendolo, che gli consiglia le arance al posto delle adorate mele, perché “sembra facciano bene alla memoria”. Siamo quello che mangiamo, anche in senso filosofico, e il protagonista di Mele avverte di dover aprire gli occhi sui condizionamenti e le abitudini mostruose dell’ordinarietà così come, superando le pose da automa che caratterizzano le sue cadenze di personaggio paradigmatico della nuova tradizione ellenica, si mostra comunque ancora capace di qualche barlume di emozione, di sorrisi anche solo accennati, di palpiti che tradiscono la dimensione, lontana in Lanthimos e invece affiorante in Nikou, di un’interiorità che l’eccellente Servetalis sa lasciar emergere pur nell’opacità della sua figura.
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