Il DIARO CILENO DI SANTIAGO ITALIA
Mentre ritorna restaurato Caro diario, mentre continua l’attesa per l’uscita di Tre piani – nuovo lungometraggio di Nanni Moretti, rinviato ai primi mesi del 2021 causa Covid – Inside The Show inaugura una rubrica di riflessioni sul mondo morettiano, a cominciare dallo sguardo su un episodio molto recente nella produzione artistica del cineasta di Brunico, quel Santiago, Italia in cui Moretti riprende a fare documentazione e testimonianza. Il film, uscito nel 2019 in un momento particolarmente critico della scena politica italiana, è in grado di lasciare allo spettatore il sapore di qualcosa che non c’è più.
Il riferimento non è soltanto a quel cinema politico popolare di cui – partendo da Missing di Costa-Gravas via via verso i lavori interpretati da Gian Maria Volonté che appare anche in prima persona nel resoconto morettiano -, Santiago, Italia lascia riverberare echi accorati: il film di Moretti parla, in maniera evidente, di un’Italia in cui la coscienza antifascista era diffusa in maniera forte nella società, non soltanto nella sinistra. Non bisognava essere militanti di “Lotta Continua” per esprimere solidarietà ai fuggitivi del 1973: i funzionari dell’ambasciata italiana che senza precise direttive da Roma decisero di accogliere e proteggere individui nei cui confronti venivano commesse tremende violazioni dei diritti umani, erano giovani borghesi adattati alla carriera diplomatica, gli stessi che nel resoconto di Moretti testimoniano la visita allo stadio dove gli uomini di Pinochet avevano radunato gli oppositori arrestati, umiliati dai militari senza freni. Nanni Moretti non ha messo da parte l’autobiografismo, ma il filtro con cui il regista di Caro diario affronta la realtà storica è modulato questa volta attraverso una meditazione via via sempre più prosciugata di ridondanze; un’asciuttezza che si affida, come nel caso di Santiago, Italia, alla registrazione del racconto dei testimoni, con un film di ottanta minuti in cui il cineasta, nell’adottare le modalità del documentario classico, racconta un’Italia in cui non solo la sinistra, ma anche altre forze politiche, si mostravano disposte ad aiutare i cileni in fuga, dal Partito Comunista sino alla Democrazia cristiana e al Partito Repubblicano.
Dinanzi al racconto dei due ex militari, uno dei quali detenuto nel carcere di Punta Peuco, incapaci di riconoscere la gravità delle loro responsabilità, Moretti, che sino a quel momento ha fatto sentire allo spettatore unicamente la sua voce nelle domande agli intervistati, compare in scena in carne ed ossa definendosi “non imparziale”. E’ il Moretti che conosciamo attraverso i film più celebri, a palesarsi nel riferimento all’impossibilità di essere imparziali, perché fare cinema è anche dimostrare rigore e vigore, sgomento e passione, desiderio morale di fare qualcosa e di parlare del Cile ma anche, progressivamente, dell’Italia di oggi, molto diversa da quella di allora. Uno dei due diplomatici intervistati da Moretti nel film, parlando dei profughi, dice: “Scappavano come scappano oggi dall’Africa”. La testimonianza continua con le parole di diversi ex-profughi i quali, pur molto riconoscenti verso il paese che li ha accolti dando loro asilo, riconoscono come il paese oggi sia cambiato, socialmente e politicamente. Quella generosità così evidente nel racconto del traduttore Rodrigo Vergara, arrivato a Roma e subito accolto come operaio agricolo nell’“Emilia rossa”. Santiago, Italia ha l’indubbio compito di ricordare all’Italia ciò che rischia di non essere più: un paese in grado, politicamente e culturalmente, di tenere a bada gli istinti peggiori. Nel restituire l’urgenza di un sentire di solidarietà che si sta spegnendo, Moretti non rinuncia ai toni intimisti del suo cinema, firmando un documentario politico dove il materiale di repertorio è collocato con essenzialità, divampando nelle immagini del colpo di stato in Cile nel 1973, con i quattro capitoli che ne raccontano il prima, il durante e il poi. Dal triennio di Unitad Popolar del governo Allende, al golpe dell’11 settembre, alle persecuzioni e alle torture dei militari, per definire il ruolo dell’ambasciata italiana di Santiago che accoglie centinaia di rifugiati, traghettandoli in Italia, un paese che garantiva nuova vita e che oggi appare molto diverso rispetto ad allora. Ne sono testimoni i registi Patricio Guzmàn e Miguel Littìn, assieme al diplomatico Piero De Masi,l’operaio David Munoz, divenuto responsabile sindacale, e Marcia Scantlebury, che ricorda la violenza delle torture con un’ironia che non ci attenderemmo. Vedere questi volti, ascoltare questi ricordi, è un’esperienza di bellezza, di un sentire che infonde senso alla (smarrita) lotta politica. Il cineasta trova, nell’interazione con i personaggi a cui chiede di spiegare le proprie emozioni (il pianto per il ricordo del religioso coraggioso e solidale), un campo analitico e una distanza al contempo rispettosa e affettuosa, mettendosi da parte come già avvenuto nelle sue opere di fiction a cominciare a “Il caimano”, per portarsi, come nella prima immagine di spalle di “Santiago, Italia”, davanti alla vastità della città cilena e realizzare un incontro tra la storia pubblica e quella privata che cerca echi di altri racconti (come il finale a suon di musica, nella ricerca dell’armonia sociale che diventa suono di concreta bellezza più che vagheggiata utopia). Film sull’accoglienza, “Santiago, Italia” diventa progressivamente un racconto sul valore umano dell’ascolto, sorta di Cario diario distillato di una semplicità formale in grado di concedersi i tempi dell’attesa, perché l’ascolto ne ha bisogno; dove la nostalgia per il socialismo democratico come alternativa culturale condivisa si avvinghia a un sentimento per la giovinezza trascorsa capace di trasformarsi, nello spazio di un’intervista, in ebbrezza per i fulgori della convinzione politica.
Santiago, Italia non celebra nostalgicamente gli “italiani brava gente”, ma si scaglia contro posizioni populiste e sovraniste, le stesse che finiscono per nutrirsi di un nazionalismo becero, per le quali concetti come “migrante” o “profugo” assumono connotazioni strumentalmente negative, oltre il loro significato intrinseco e ogni regola di civiltà e tolleranza. I due ex militari che Moretti intervista sono espressione di una mentalità che ritroviamo oggi nel nostro paese: il primo nega le torture, il secondo afferma che il golpe abbia ristabilito la democrazia. Non si può restare imparziali dinanzi al golpe cileno del ’73, così come non si può restare indifferenti dinanzi a quello che accade quotidianamente in Mediterraneo o nell’Europa orientale. La nostalgia che nel film c’è, non è da cogliere astrattamente nel passato, ma (idealmente) nei sentimenti di fiducia che la voglia di rinnovamento e freschezza veicolati dall’affermazione del socialismo democratico di Allende portarono: sogno di cambiamento – fu il primo governo socialista democraticamente eletto della storia – la cui fine tragica rappresentò un trauma per milioni di persone. Moretti dice di aver capito perché ha girato Santiago, Italia quando Salvini è diventato ministro dell’interno. Se il parallelo con il Cile di allora può apparire programmatico, non lo è la presa di coscienza che scaturisce come proficua nella dialettica tra passato e presente che Moretti cerca con il suo film. Opera non riconciliata nei confronti delle sinistre di oggi il cui smarrimento l’autore continua a ribadire, rammentando, anche con le immagini del bombardamento del palazzo presidenziale dell’11 settembre del 1973 – dopo cui Allende ebbe appena il tempo di trasmettere alla radio un disperato discorso di addio prima di morire, – un contesto di inaudite violenze spesso dimenticate nell’indifferenza.
Lascia un commento