Tra il dire e il fare c’è di mezzo Steven Soderbergh, che tra dichiarare l’addio alla regia e chiudere il capitolo cinema, ha furbamente inserito Logan Lucky. Ovvero l’opera del rifiuto e della ribellione al Sistema Hollywood: girato, prodotto e distribuito con stratagemmi e finanziamenti autonomi pur di non sottostare ai dettami degli Studios. In Italia è uscito col titolo La truffa dei Logan, poco cambia ai fini della trama ludico-criminosa con cui il regista sonda le realtà di furbacchioni arricchiti o bistrattati che tanto gli stanno a cuore.
Logan è il cognome di due fratelli e di una sorella sopra cui pende una “maledizione” e vicino ai quali la vita non è stata certo rose e fiori. Storie con un passato in guerra e presenti senza lavoro, ma con un’idea salva portafoglio appuntata in una lista sul frigorifero. È il decalogo della rapina perfetta, la cui arguzia principale sta nel muovere le tessere non comunicanti di un mosaico. Concetto chiave riassunto nel “Sapranno solo quello che devono sapere”, con cui Channing Tatum pianifica il colpo e Soderbergh si rivolge oltre lo schermo.
Stiamo al gioco insieme a questi personaggi tragicomici, dentro i trucchi di montaggio con cui il regista porta avanti le sue trame. Lontano stavolta dalle lussuose suites o dalla attraente combriccola di Ocean’s (di cui non manca l’auto citazione), le variazioni messe in scena da questo canovaccio vedono dei presunti “sempliciotti”, la cui rocambolesca macchinazione del furto non batte comunque un sentiero scontato. Anzi è un preludio all’effetto sorpresa e ai dettagli che ne aumentano il valore; perché in mezzo a tanto trambusto, dentro vite interrotte e regole sociali che le spazzano via quando non servono, il cuore che batte è soltanto uno. Alloggia nel petto di una ragazzina a cui si dedica un palco, lasciandola fare con voce sottile, occhi lucidi e autentica purezza. Nell’ombra di qualcuno che guarda da lontano si sottolinea così (o si era sempre pianificato) il reale motivo per cui accendere il motore truffa. D’altra parte Soderbergh ha sempre buttato un occhio oltre il denaro in mezzo ai suoi combina guai, stavolta con una dolce commedia che flirta con l’azione e la scrittura di sua moglie Rebecca Blunt (prima sceneggiatura per lei).
Il cast è accordato a dovere, con il placido fratello Adam Driver e la sua controparte istintiva (Tatum), col galeotto Daniel Craig, divertente e divertito, nel ruolo sopra le righe che dovrebbe ricoprire più spesso. Funzionano perché non patiscono gli stereotipi di personalità in conflitto con se stesse o con quello che le sovrasta; perché talvolta sembrano figurine ironiche di rappresentanza (la robotica poliziotta Hilary Swank); e anche perché quella tosta che guida veloce è una donna (Riley Keough).
Soderbergh continua a fare film e a metterci dentro buona musica, di questo potrebbe aprirsi un sequel, ma per il momento impariamo a “non essere avari” e a tenerci stretto ciò per cui respiriamo.
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