In Sogni d’oro di Nanni Moretti compare anche Tatti Sanguineti. Il critico, che la sera di giovedì 8 ottobre 2020 sarà ospite del Festival Adelio Ferrero di Alessandria per raccontare Fellini nell’anno del centenario, in Sogni d’oro è tra i destinatari delle imbeccate nevrotiche di Moretti, aiuto-regista del personaggio interpretato dal cineasta di Brunico alla sua terza regia per un lungometraggio.
Sogni d’oro fu premiato con ilLeone d’argento nel 1981 non senza qualche dissenso. Sono trascorsi molti anni da allora e forse oggi in pochi ricordano come, a proposito del film di Moretti, Sergio Leone pare avesse detto: “Fellini 8 1/2 m’interessa, Moretti 1 1/4 no”. Fuor dalle fisime del periodo, il riferimento felliniano sembrava ribadito dai tormenti di un artista come raffigurati nel lungometraggio, per quanto lo stesso Moretti avesse poi vanamente tentato di prendere le distanze da quel discorso. Più che soffermarsi su una crisi, come sarebbe apparso più esplicitamente in seguito, Sogni d’oro è un film che sembra mantenersi nel tempo come l’opera “big bang” in grado di contenere già molto del Moretti successivo, pur non apparendo forse così affilato (leggi: classico) come altri lavori a venire. Ma la singolarità di Sogni d’oro è nella sua natura coscienziosamente transitoria, tra un primo periodo dell’analisi generazionale e politica e uno sguardo più alto, verso quel grado di dolorosa intimità che porterà a Bianca.
Nel dar vita ad un universo in cui le persone paiono pronte a tutto per un momento di celebrità, dove l’impoverimento del linguaggio viaggia a pari passo con l’involuzione della comprensione verbale, Moretti realizza un’opera onirica irriverente, in grado di anticipare la deriva di mostruosità della televisione odierna e la degenerazione della società dell’immagine, coniugandola con la straniante crudeltà di uno sguardo critico ma insieme autocritico, dove il personaggio è vittima di un calvario di incontri, orrendi dibattiti, dove tutti si sentono in diritto di esternare anziché comprendere (e siamo disperatamente all’anticipazione della società dei social). Lo sconforto del protagonista Michele Apicella raggiunge punte di comicità come durante la sfida in un programma televisivo trash contro un regista (Gigio Morra) completamente prono ai gusti del pubblico. Apicella manifesta di voler far parte di una minoranza e nondimeno è tagliente, anzi, sofferente, dinanzi allo sconcerto per un paese che vorrebbe aiutare, ovverosia amare, ma l’amore è previsto soltanto nel sogno in cui trova Silvia (Laura Morante), e sconta lo smarrimento di una felicità impossibile, con il grido disperato di un mostro che si palesa come vittima. Dietro l’umorismo, il grottesco della società, che diventa profezia dell’involuzione televisiva, del qualunquismo che contagia la quotidianità sin nelle abitudini della famiglia del protagonista stesso, per non dire della resa della psicoanalisi come prospettiva risolutrice (Freud che svende i suoi libri al mercatino).
Sogni d’oro, con il montaggio sapiente di Roberto Perpignani, raccoglie temi e inquietudini in un racconto che avrebbe permesso a Moretti di avviare un discorso profondamente personale, con un personaggio mai più così espressivo, come in questo caso, delle sue turbe autoriali. Il lamento del giocatore di pallanuoto, quell’“Io non parlo così” del parlamentare in Palombella rossa – sgomento dinanzi al linguaggio della reporter – è già programmaticamente contenuto nell’esternazione rivolta ai tuttologi (come i critici cinematografici del film) capaci di sentenziare e di presenziare ai dibattiti senza ascoltare le vere motivazioni di un’opera: “Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco!”. Una salutare dose di lucidità, quella di Michele Apicella in Sogni d’oro, che sarebbe fin troppo facile etichettare come cattiveria o intolleranza. Il dramma del personaggio è per una lotta sentita come perdente dinanzi alla società dello spettacolo degenerato, con punte di quell’intransigenza giovanile che contempla il bisogno di non assecondare banalità e luoghi comuni (“No! Non lo voglio superare il complesso d’Edipo”): tratti per cui il personaggio, scontroso e irritante, è ancora oggi semplicemente irresistibile.
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