L’affetto dei francesi per Nanni Moretti è un fatto noto e proprio dalla richiesta di un canale televisivo d’oltralpe prende avvio il restauro di tre film, Caro diario (1993), Aprile, (1998), La stanza del figlio (2001), commissionato direttamente alla Cineteca di Bologna con la supervisione dello stesso Moretti e del direttore della fotografia Beppe Lanci. Con il ritorno nelle sale di Caro diario, il cineasta di Brunico si rimette in viaggio per accompagnare le proiezioni in alcune sale (appena prima della nuova serrata del Covid), con la lettura di brani del diario di lavorazione di un film intimo che fu capace di intercettare sentimenti universali, grazie all’aspetto aereo e libero, caratteristica che sarebbe stata confermata dal successivo lungometraggio del cineasta, Aprile. Con La messa è finita (1985), sceneggiato con Sandro Petraglia, Moretti confermò di essere in grado di realizzare un film dall’aspetto “normale”, rispettando le esigenze di una trama, con personaggi definiti e una progressione di piccoli-grandi eventi.
E con Palombella rossa (1989), quattro anni prima di Caro diario, si rendeva evidente l’ultimo confronto con l’alter-ego Michele Apicella, il deputato politico in crisi di memoria, come il partito politico che egli appresentava. Con Caro diario si realizza una svolta: la maschera del personaggio viene messa da parte e Nanni Moretti si porta al cospetto di una dimensione autobiografica senza filtri. La politica è ad un momento di crisi, e Moretti sembra tornare in campo per raccontare il rapporto possibile con i luoghi, massacrati dalla desertificazione delle sconfitte, dei patimenti, anche sociali, dopo anni di corruzione e il terrorismo, nuovi volti che prendono il potere e il bisogno, per l’intellettuale, di ritrovare il contatto con la realtà più intima e diretta. Con il premio alla regia a Cannes, Caro diario diventa il primo film di Moretti distribuito nel mondo. L’insofferenza del protagonista, che all’epoca mal sopporta quando gli si chiede una considerazione sull’inevitabile dimensione generazionale evocata dal suo lavoro, varca i confini nazionali e Moretti diviene il simbolo di rivalsa contro l’apatia del cinema medio o mediocre del periodo, mentre le sue frasi si imprimono come tormentoni (era già accaduto, anche di recente, con Palombella rossa, quando il deputato smemorato se la prendeva contro il linguaggio imbarbarito della giornalista). Sintomatico che il film viva di una costitutiva episodicità che in quel momento appare beneaugurante, nei riguardi un cinema, quello italiano, avvertito dal cineasta come a un punto morto, ripiegato su ricette prevedibili.
Caro diario non nasce da subito come un lungometraggio, ma prende spunto da riprese leggere, da momenti piccoli, come l’inserimento di un brano in cui si ritrova l’attrice Jennifer Beals (nato quasi per caso, a seguito di una cena a tre con il marito dell’attrice, il regista Alexandre Rockwel, a Roma per presentare il film In the soup). Moretti matura l’esigenza di comporre un quadro di momenti, nell’esigenza di sperimentare il confronto innanzitutto con Roma, la stessa città da cui prese le mosse l’esperienza cinematografica di Pier Paolo Pasolini. E Pasolini si conferma punto di riferimento di Moretti che in Caro diario, curioso dei quartieri romani a bordo della sua vespa, rivive la solitudine liberatoria delle vie di Roma nelle ferie d’agosto durante i primi venti minuti dell’episodio d’apertura, per poi imbattersi nella profonda e vera solitudine del ricordo con quei cinque minuti di piano-sequenza capaci di riprodurre i sentimenti del regista e quelli dello spettatore dinanzi al dolente crescendo del pianoforte di Jarret e il suo Concerto di Colonia, per avvolgere i luoghi in cui è sepolto il poeta. Caro diario, con il dolore del ricordo, trasporta lo stesso Moretti e il suo film in altri territori, sterza come sulla vespa alla ricerca di altri scenari, luoghi possibili in cui ambientare un film.
Il tono rohmeriano veleggia nell’episodio Isole per rapprendersi nell’asciutta compostezza dell’episodio Medici. In viaggio sulla vespa o nelle periferie del suo immaginario, Moretti accompagna con lealtà il suo spettatore, rivolgendo il suo sguardo al presente e al passato, dando voce ad una tenerezza più affettuosa del solito, pur dopo aver chiuso i conti – si fa per dire – con la critica, riportando testualmente la lettura di una recensione delirante e fatta ascoltare forzatamente al suo recensore, dopo che Moretti ha trascorso un pomeriggio d’agosto desolante per aver letto i consigli del recensore. La consapevolezza del limite, i quarant’anni misurati dal metro ad un incrocio stradale, sono il motivo della benevolenza e al contempo lo sprone per viaggiare in vespa ma anche ritornare a prendere appunti, senza commenti a priori, nel segno di una ritrovata partecipazione-spunto di giovinezza che lo “splendido quarantenne” rivendica al declinare degli anta. Ripartire dall’esperienza del limite favorisce un film-cesura che rinnova il cinema dell’autore (Aprile e La stanza del figlio, che seguiranno, beneficeranno in modi diversi e comunque intensamente dell’affermazione di Caro diario), dove Moretti, riprendendo pasolinianamente alcune idee gramsciane dell’intellettuale, le riporta alla società contemporanea filtrandole con la propria sensibilità, non pretendendo di ergersi ad educatore, ma, nel raccontare le indolenze del suo essere, Nanni racconta un intellettuale politicamente orientato e calato auto-ironicamente nella cultura nazional-popolare, di cui difende le virate controcorrenti con una vespa che scorre e si slancia verso il futuro. Noi spettatori, di spalle, a seguire le movenze di chi sa bene che non esiste il pensiero senza il linguaggio, e il linguaggio-pensiero di Caro diario è un proposito di movenze, on the road alla ricerca del contatto più vero con aspetti quotidiani dell’esistenza, dove l’auto-citazione e il narcisismo autobiografico si affiancano a quell’atto di umiltà cui il ridere di sé e della vita conduce, pur nel riconoscimento di sentirsi sempre parte di una minoranza, quel gruppo ideale di morettiani che rinnegano l’autorità blandita dai luoghi comuni e del conformismo.
Avvalendosi del diritto di cronaca nei confronti della generazione sessantottina e verso quella sinistra in crisi di cui lo stesso Moretti fa parte, l’autore ribadisce il suo ruolo anticonformista mostrandosi altro dal coro, nell’assistere, bonariamente sgomento, alla nuova dipendenza dell’amico intellettuale Renato Carpentieri verso il serial televisivo Beautiful, allorquando, sulle isole che dovrebbero garantire il pensiero filosofico, i genitori della stessa generazione di Moretti si sono trasformati in un teatrino di dipendenti tutto smorfie e pannolini. I personaggi di Moretti, frustrati, incompresi, membri di famiglie borghesi, portavano sovente il cognome della madre di Nanni Moretti, a ribadire un’assonanza con l’affetto materno che lo stesso Pasolini conservò. A partire da Caro diario, il cognome materno Apicella non tornerà più. Il presentarsi come se stesso è dunque la sostituzione del regista al posto del deputato o del prete, funzioni assolte nella fragilità di individui incompresi, smemorati, frustrati. Nondimeno, il regista Moretti è un individuo posto dinanzi a un momento di crisi, di disagio comprovato da una malattia la cui cura è portata in scena nel rituale degli appuntamenti con i dermatologi, con le ricette e le medicine che si assommano componendo una montagna di indicazioni contrastanti, attitudine a comporre sprazzi di realtà come nei ritagli di giornale che verranno esibiti nel tappeto-manifesto di Aprile. L’enfasi sul linguaggio, che ritorna in Caro diario, come attenzione alla manipolazione del pensiero, si cala in definitiva in una considerazione umanissima, nel riconoscimento che con linguaggio si condiziona, anche drammaticamente, la vita delle persone. E mentre i poeti muoiono, lo sgomento ha bisogno di una cura, anche attraverso un linguaggio più consapevole, nel bisogno di una riscoperta e riparatoria leggerezza, pronta a diventare tratto di stile o semplice consiglio, come il bere un bicchier d’acqua di prima mattina. Per ripulirsi di ciò che è stato e guardarsi negli occhi con complicità come fa Nanni, rivendicando a sé diritto ad essere tra noi, con il tocco ironico dell’attor comico che sa essere.
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