In attesa di poter vedere nel 2021 il nuovo film di Nanni Moretti Tre piani, continuiamo il viaggio nel cinema di Moretti.
Oggi è la volta dell’ultimo lungometraggio uscito nelle sale, Mia madre (2015), che fu seguito dal documentario Santiago Italia (2018). Con Mia madre ci troviamo in una rappresentazione che riporta l’autore ai momenti espressivi più intimi e toccanti dai tempi de La stanza del figlio, laddove il dolore per la morte del figlio era uno shock per i protagonisti mentre con il lungometraggio interpretato da Margherita Buy e John Turturro, Moretti, la cui madre scomparve durante il montaggio di Habemus Papam, ritrova la necessità di parlare della memoria, di ciò che resta di una persona che ha condiviso e contribuito in maniera fondamentale all’esistenza di un figlio. In qualche modo non si è mai preparati ad un evento come la morte di un genitore, per quanto esso possa essere atteso.
E il regista parla anche di questo, con discrezione, senza voler strafare. In una filmografia che sembra volersi portare dalle parti di una maturità espressiva fortunatamente non ripiegata, il cinema di Moretti si mantiene nelle misure del racconto essenziale, scevro da effetti e compiacimenti, per darsi come un lavoro di scavo che riguarda l’autore in prima persona. Messi da parte alcuni manierismi di Habemus Papam, deposte le accuse politiche frequenti ne Il caimano, il regista di Caro diario e Aprile conserva il tono comunicativo immediato nella ricerca di una complicità tra il suo personaggio e lo spettatore in cerca del suo paladino. Ma il paladino qui esprime non tanto un’afasia comunicativa, quanto una singolare esitazione nell’esprimere segnali in una prospettiva comunicativa socio-politica, quella che tutto il popolo di Moretti sembra ogni volta attendere. Paiono così trascorsi molti anni dai “Girotondi”, da quando la priorità dei bersagli del regista era da cogliere nella tavola di una partecipazione alla scena politica che si manifestava in uscite più o meno plateali e divertenti, in esortazioni a Massimo D’Alema a “dire qualcosa di sinistra”, a prendere partito e posizione malgrado il riconoscimento di una vertiginosa caduta nell’incultura da parte del Belpaese. Ma tutto il cinema di Moretti, che con Mia madre perviene al dodicesimo lungometraggio, si mostra come percorso in cui i deragliamenti dei personaggi sono costantemente espressione di disagio, di una difficoltà a seguire un cammino tracciato o prevedibile.
Tra i film dalla vocazione diaristica, come Caro diario e Aprile, e i film che sembrano voler rappresentare uno sguardo su condizioni sociali ed esistenziali, come La messa è finita o Il caimano, permane il tessuto di continuità offerto da una narrazione i cui registri oscillano tra il realismo e la dimensione onirica, con i piani che sovente si confondono con il culmine ottenuto nel finale de Il caimano e in quasi tutto Palombella rossa, teatro della mente dove le pulsioni e i pensieri dell’autore si rapprendono in quello che resta uno dei film più personali ed originali del regista. Laddove, nel film in cui Michele Apicella perde la memoria e cerca a fatica di rammentare il suo ruolo di deputato del partito comunista in un momento di trasformazione del suo partito, Moretti a ben vedere parte dall’individuo per raccontare le fluttuazioni dei desideri e degli ideali, gli scarti tra apparenza ed immaginazione che lambiscono il pensiero di un uomo prima del politico, in quel film era Michele Apicella ad essere il doppio di Moretti. In Mia madre, il regista-attore, memore dei suoi precedenti espressivi, cerca piuttosto una misura che ancora una volta alterni e confonda i registi espressivi, e qui il suo racconto procede con asciuttezza e controllo, parlando di sé attraverso una protagonista femminile di cui si mette a fianco e che gli permette di portare in scena il doppio del suo ruolo di cineasta: quella Margherita Buy la quale può interpretare ancora una volta il ruolo prediletto di donna in crisi lasciando passare nel suo personaggio le inquietudini di una persona che, operando nell’Italia di oggi e volendo esserne un’interprete, esprime propriamente confusione, difficoltà nel trovare un senso al proprio agire. Quando lei si trova a dover mettere in scena la rappresentazione di un corteo di manifestanti ad uno sciopero, durante una pausa concitata di lavorazione commenta con stupore il comportamento di uno degli attori, il quale, pur essendo chiamato ad interpretare un ruolo pacifico, apprezzerebbe invece sfogarsi con gli altri e mettere in gioco la sua carica aggressiva. Nel contesto di un film, quello dentro il film, in cui lei va alla ricerca di una messa in scena problematica del mondo del lavoro, in quanto regista si accorge che il suo punto di vista non è condiviso, non è partecipato. E avverte che perfino le sue indicazioni tipiche (dice agli attori: “devi essere il personaggio, ma devi essere anche a fianco del personaggio”) risuonano come parole vane o perfino vuote. Tanto vuoto e scoramento risuona con piena evidenza al confronto con il dolore del lutto, con l’attesa della morte di una persona cara che rappresenta quell’accudimento, quella cura, quel legame con il tempo e con il proprio mondo fondativo che sappiamo essere un riferimento preciso e costante nel cinema di Moretti. “Non torneranno più le merendine della mamma”, urlava Michele Apicella in Palombella rossa.
La vita offre momenti di disperazione che, in un film tutto giocato sul teatro della mente come quello sulla pallanuoto, era plausibile e particolarmente interessante vedere inseriti e dipinti in un quadro di autarchia onirica, in una cornice in cui la piscina era il luogo eletto per tuffare aspirazioni, tic e nevrosi del deputato incapace di tracciare una rotta diversa e nuova al proprio vivere e al proprio partito (“Michele, se guardi a destra, lo so che poi tiri a destra”, confidava il portiere della squadra avversaria ad un Apicella smarrito dinanzi alla sconfitta). Ma in Mia madre Moretti, trovandosi ad essere regista di una narrazione più piana, affida opportunamente ad altri il compito di esprimere che la vita va avanti, che la vita è imprevedibile, irrispettosa (il personaggio dell’attore interpretato da John Turturro), mentre per se stesso egli sceglie, senza possibilità di appello, il ruolo del figlio che alla morte della madre lascia silenziosamente il lavoro, in attesa che qualcosa lo muova o lo motivi di nuovo. Un silenzio che risuona e dice più del dire. Un momento inatteso per i tanti osservatori del cinema di Moretti: smarrimento apparente che può lasciare sorpresi e far notare come al cineasta, questa volta, interessi in fondo un po’ meno il lato sociale e politico della rappresentazione. Ma forse il coraggio di una rappresentazione veritiera passa anche per questa strada e per questo riconoscimento di disagio e inadeguatezza. Tra tanti slogan e tante parole, quelli della politica attuale, Moretti, con un film sul dolore e le ferite dell’esistenza, sceglie di sottrarsi al dialogo scontato e convenzionale, preferendo un diario intimo, ancora una volta. E come succede talvolta, un film maturo ha la qualità di contenere tutto il cinema di un autore . Così Mia madre si collega al cinema più mentale di Moretti, come Bianca o Palombella rossa, e riprende il linguaggio metaforico, come nella sequenza in cui Margherita Buy ritrova gli amici, il fratello e la madre tra le persone in coda per vedere al cinema Il cielo sopra Berlino di Wenders. Un’immagine-ricordo e al contempo un’immagine onirica, lieve, in cui la società familare è armonicamente fusa in un cordone ombelicale per andare a vedere un film che parla del pensiero, degli angeli, della possibilità di ritrovarsi ascoltati e accolti. Come potrebbe fare una madre, appunto.
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