Si poteva pensare che avendo diretto solo due film – di cui il primo, Amore tossico (1983), è il capolavoro insuperato ed eternamente dibattuto – Claudio Caligari non fosse più disposto, a distanza di oltre vent’anni, ad esporsi alla cerimonia logorante delle domande di rito dei sacerdoti del suo culto. Errore. È letteralmente un fiume in piena, inarrestabile, incontenibile, ansioso di raccontarsi e restituire totalmente il contesto cinematografico, politico e umano, all’interno del quale cominciò e si sviluppò il suo personalissimo itinerario artistico. E non è finita. Il folto gruppo di sostenitori, accorso al cineclub Alphaville di Roma per assistere alla proiezione della celebre pellicola, oltre a godere della loquacità quasi compulsiva dell’autore, è stato testimone della ricomparsa di uno dei personaggi-icona del film culto: Roberto Stani (alias “Ciopper”).
Caligari, posseduto da un flusso narrante non esorcizzabile, dipinge l’affresco di un’epoca, quella della fine degli anni Settanta, con i suoi paradigmi e cadenze, virtù e vizi, mostrando una certa nostalgia per un impegno politico che lo vide protagonista in quello che viene comunemente ricordato come Movimento del 1977.
Il regista, per meglio rievocare le atmosfere di quel periodo, ha mostrato un prezioso documento dal titolo La parte bassa in cui, nelle vesti di intervistatore, compie un happening in una casa occupata da un manipolo di ragazzi dissidenti della Milano pre-craxiana. Certo non era il ’68, ma l’ultimo e sacrosanto tentativo di non cedere alla logica affaristica della colonizzazione socialista, dei nani, delle ballerine e dell’amaro Ramazzotti. Un documento prezioso che si inserisce a pieno titolo nell’ambito di quel cinema underground che al Filmstudio andava per la maggiore in quegli anni. Sulle pareti della casa occupata una scritta frettolosa troneggia prepotentemente: “Ribellarsi è giusto / Ribellarsi è possibile”.
Passando alle vicende squisitamente cinematografiche, il tono ironico usato per elencare le peripezie produttive che accompagnarono l’uscita del prodigioso film d’esordio pare un astuto modo di celare un’evidente amarezza, mai definitivamente superata. E comprensibilmente. Caligari si ritrovò nel 1983 al Festival di Venezia, in una sezione speciale, assieme a nomi del calibro di Fellini, Antonioni, Godard. Amore tossico, che Marco Ferreri aveva supervisionato e tenacemente sostenuto, riscosse un enorme successo, vincendo il premio “De Sica”. Sembrava la svolta. Invece, a causa di un produttore disonesto, il film venne distribuito nelle sale solo un anno dopo e con un numero esiguo di copie. Bisognerà aspettare quindici anni prima di vedere il secondo lungometraggio, L’odore della notte, ispirato alle vicende della banda dell’Arancia Meccanica, anch’esso molto incisivo e traumatizzante.
L’abbiamo incontrato dopo la proiezione, sulla strada, come il suo cinema, tra passanti e curiosi, chiacchierando senza sosta. È stato il brontolio degli stomaci a costringerci a tirare le somme: “Il cinema vero, purtroppo, si fa con gli avvocati”.
Al festival di Venezia del 1983, durante la conferenza stampa di Amore tossico Marco Ferreri si alza e getta il cappello in aria. Cosa voleva dire con quel gesto, visto che lui era il produttore?
Marco Ferreri si era arrabbiato non con me, ma con Tatti Sanguineti che col suo spirito polemico anticipava, secondo me, le barbarie televisive: cinque minuti prima della conferenza stampa mi dice “facciamo un po’ di canile”. E io gli rispondo che un po’ di canile non lo può fare con il mio film. Prima di Amore tossico ho sgobbato per anni e per me quindi era un’occasione importante. Allora ha cominciato a dire che il film ha un sonoro problematico. Effettivamente il primo rullo non ha un sonoro molto buono, poi però nel DVD l’hanno sistemato. Nella conferenza, al casinò, c’erano personaggi importanti, gente come Dario Fo, Monica Vitti e tanti altri. Comunque, ad un certo punto si alza Ferreri facendo cadere una pila di sedie, poi butta il cappello in aria e dice a Sanguineti che non capisce niente. Lì è cominciato uno scontro durissimo, e Ferreri è salito al banco della conferenza stampa, dal quale mi sono defilato dopo mezz’ora.
Poi, però, avete preso il premio De Sica.
Sì, anche perché ci avevano impedito di andare in concorso. Così come quindici anni dopo l’hanno impedito a L’odore della notte. Motivo ufficiale secondo il direttore dell’epoca: “Il film è un capolavoro fino al sotto-finale, quando entrano nella tana del democristiano. Lì il film cade e quindi non può andare in concorso”. Ma devono andare il film sulla droga della Archibugi (L’albero delle pere), o il film di Lucchetti (I piccoli maestri).
L’odore della notte (1998) è stato comunque riconosciuto come un gradito ritorno a un tipo di cinema, chiamiamolo di genere, che in Italia ormai non si faceva più da tempo. Ecco, ci sono stati dei film a cui si è ispirato?
Di cinema italiano c’è ben poco. C’è dentro soprattutto Bresson. La casa di Remo Guerra (Valerio Mastrandrea) è costruita su quella di Pickpocket (1959) e di Le samouraï (1967) di Melville. Sono case che vedevo al cinema quando avevo vent’anni. Erano costruite in teatri di posa, ma all’epoca non lo capivo. Mentre, ad esempio, la casa che si vede in Taxi driver (1976) di Scorsese è vera. Bene, ho fatto un mix di tutte queste case e perciò automaticamente posso affermare che queste sono state le mie influenze. Per quanto riguarda Remo Guerra devo dire che ha qualcosa soprattutto di personaggi solitari come Alain Delon o Jean-Paul Belmondo.
In questo modo ci allontaniamo dal cinema dagli echi tarantiniani, quelli a cui spesso viene accostato il film.
Il tipo di violenza che si vede nel cinema di Tarantino, soprattutto nel film Le iene (1992), non mi interessa perché è una violenza che fa ridere, ma che fa anche paura. L’avevo pensata anch’io già negli anni Ottanta, ma non erano pronti i produttori. Ecco, Tarantino è stato abile nei tempi, su molti a mio parere. Quando proposi una sceneggiatura simile alle sue, molti non la capivano e io l’ho abbandonata. I film polizieschi italiani degli anni Settanta, invece, non li andavo a vedere perché la critica diceva che facevano schifo e anche a me quei pochi che ho visto mi sembrano scalcinati. Tarantino in realtà ha fatto tanti danni esaltando questi film. Preferisco, invece, il polar francese, soprattutto i film di Melville, o il primo Sautet (Asfalto che scotta). Oppure il cinema americano, Scorsese prima di tutti.
Nel volume “Storia del cinema”, Gianni Rondolino la colloca all’interno di una schiera di registi da lui denominati “post-televisivi”. Ora, cosa risponderebbe?
Non rispondo mai. Nel libro Italia odia – Il cinema poliziesco italiano di Roberto Curti, però, c’è una lettura interessante su L’odore della notte. Intuisce che il film ha disturbato nel dire chi ha i soldi e chi non li ha, perché questo discorso è un tabù nel nostro Paese.
Come pensa, invece, che le nuove generazioni leggano un film come Amore tossico?
Penso che lo leggano come un documento. Si accorgono che in Italia esisteva un cinema diverso, che potrebbe esistere ancora oggi e che c’è gente che lo saprebbe fare. Dall’altro lato lo leggono come molto realistico, un documento dell’epoca, appunto. La lettura delle nuove generazioni ci interessa soprattutto per capire meglio le trasformazioni che sono avvenute nel consumo delle droghe.
Penso, però, che il film funzioni ancora oggi non perché parla di eroina, ma per come è formalizzato. Non è l’unico film sull’eroina, certo, ma su Imdb c’è gente che scrive dalla Svezia. È uno sguardo non moralistico in cui è assente il gioco para-pubblicitario che c’è ad esempio in Trainspotting (1996).
Quale potrebbe essere una definizione stilistica per Amore tossico?
Pasoliniano. Quando ero ragazzo non avevo ancora visto Accattone (1961). Inizialmente ho conosciuto Pasolini con Il Vangelo secondo Matteo (1964) e Uccellacci e uccellini (1966). Poi ho visto i film delle borgate. All’epoca non c’erano i DVD e i film quando li andavi a vedere ti restavano dentro.
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