Un giovane, in crisi con la compagna, resta solo con il figlio. Ma quel giovane è Michele Apicella, che nel primo lungometraggio di Nanni Moretti blandisce il figlioletto e lo prepara ad assumere smorfie di dolore non appena la mamma farà il gesto di andarsene. Atteggiamento puerile di un personaggio infantile, manipolatore, dai toni imbronciati e saputelli, pronto a difendere le sue posizioni che sono poi quelle un po’ disgraziate di chi manifesta di appartenere ad una generazione con autocompiacimento e atteggiamenti ambivalenti. Il primo film di Moretti, Io sono un autarchico (1976), ha i tempi scarni e le inquadrature severe delle riprese super 8, poi riversate su pellicola 16 mm per poter apparire nel circuito nazionale.
Opera prima completamente doppiata, con le voci dei personaggi a dare il senso di una professionalità che inevitabilmente stride con l’impianto sperimentale, per non dire amatoriale, del racconto, Io sono un autarchico condensa con rigore disadorno e sapida lucidità temi del mondo morettiano, anticipando spunti che ritroveremo a lungo. Bagliori di un’autarchia che accompagna il film nel suo rispecchiarsi dentro la vicenda del personaggio alter-ego del cineasta, quel Michele Apicella che incontreremo sino a Palombella rossa. Quest’ultimo, un altro film della crisi in cui le cose cambieranno sensibilmente, mentre cambieranno di nuovo con La stanza del figlio, nel segno di un elemento autobiografico che abita il rapporto tra il pubblico e il privato.
All’epoca della sua uscita, Io sono un autarchico finisce per diventare, con il successivo Ecce bombo, quel manifesto di una generazione che si vuole fragile ma sdegnata, con Michele Apicella indole del bastian contrario in lotta principalmente contro i luoghi comuni rafforzati dai costumi del suo tempo. Ce n’è già abbastanza per tutti, perché lo strale del polemista si prepara a non risparmiare malumori verso i suoi simili, mentre la battaglia risentita contro le autorità inaccettabili si risolve addirittura in sintomo di nausea quando la bava verde cola dalla bocca di Apicella alla rivelazione che Lina Wertmuller è apprezzata nelle aule scolastiche degli Stati Uniti. Il film, nella sua essenzialità, riporta scene di vita quotidiana di un ventiduenne intellettuale, che partecipa alle recite di un teatro brechtiano in cui ci si prepara un po’ fanaticamente come ad un esperienza salutista. Ma nulla è troppo strano. Era proprio quello che una certa cultura prometteva: riflessione e cambiamento. Calato dentro gli ambienti e la dimensione del suo tempo, Michele Apicella sembra un’emanazione di quelle riprese con i tempi morti e le attese che intorpidiscono lo spettatore incline però ad accogliere ogni trasalimento del personaggio come un graffio disposto a far pensare.
Moretti mette in scena un microcosmo senza che accadano scene plateali o grandi eventi. Registra la quotidianità, fatta di amici che si raccontano piccoli sviluppi, impercettibili passi avanti o indietro attorno a un’idea o a un momento. Il teatro dentro il film ha evidentemente una funzione metaforica, ma è anche cuore espressivo di un racconto che rende manifesta la sua natura teatrale, ambito autoironico per maschere che lasciano trasparire aspetti di fragilità. Michele Apicella lo sdegnato in realtà è tramite per l’avvio del racconto lungo territori di confidenzialità con uno spettatore complice, attratto dall’aspetto altéro e un po’ imprevedibile delle incursioni dell’attore-autore dentro una polemica che riguarda l’ovvio, i luoghi comuni, verso cui ribellarsi additando paradossi e distorsioni del linguaggio. Nei silenzi, nei non detti, nelle pause, ci si trova pronti a meditare sulle proprie abitudini, sulla mancanza di maestri (l’intellettuale Beniamino Placido parla un linguaggio pretestuosamente astruso, altezzosamente figlio di una classe sociale da mandare al macero, mentre le letture sul capitale non sono cosa facile, tanto da far sospettare il protagonista di aver sbagliato ideologia).
Un ritratto della presunzione che contiene nuclei delle ossessioni morettiane, disposte con il dono confessato dell’autoironia. Io sono un autarchico ebbe la fortuna di venir proiettato in prima televisiva quando le reti di Stato erano soltanto due e la concorrenza praticamente nulla. Una condizione impensabile per qualunque opera prima in quel momento e men che meno oggi. Sollevò il dibattito e aprì la strada dell’interesse verso il successivo lungometraggio del giovane regista, Ecce Bombo, in cui il sessantottino Michele Apicella veniva a rapportarsi più clamorosamente con i suoi tic e con il vuoto di una generazione. Le intemperanze di quei primi film rivelavano la sensibilità di un autore verso una dimensione umana attraversata da ideali e sogni troppo presto infranti, nonostante l’aspetto narcisistico che non poteva e non può non farci ancora sorridere.
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