La parola ai giurati
Regia: Sidney Lumet; Drammatico/Dramma giudiziario; USA, 1957
Interpreti: Henry Fonda, Lee J. Cobb, Ed Begley, E. G. Marshall, Jack Warden
Ore 21,10, TV 2000, canale 28; durata: 95’
Sidney Lumet è stato un regista di cui sentiamo la mancanza. Sovente, nella sua lunga filmografia, l’aggettivo “teatrale” ha accompagnato le definizioni assegnate dalla critica ai suoi film, o ad alcune sequenze particolari. Oggi comprendiamo che certe osservazioni non coglievano pienamente nel segno, e nemmeno paiono completamente giustificabili con la teoria della “contestualizzazione storica”. Il respiro teatrale significava, nel suo caso, spazio alla riflessione interiore, al dramma del personaggio, a quel tentativo di disvelamento che non di rado si modulava nei film da lui diretti seguendo la traiettoria di un’inchiesta, esistenziale, storica o giudiziaria. Un regista dalla parte degli ultimi, dei non riconciliati. Le origini in una famiglia di artisti – il padre e la madre, entrambi ebrei, lui attore e lei ballerina – favorì il precocissimo esordio di Sidney Lumet in qualità di attore sin dall’età di quattro anni, quando, alla Professional Children School di New York, prese parte a numerosi spettacoli teatrali. L’esordio dietro la macchina da presa a trentatre anni, per La parola ai giurati (1957) assieme all’amico Henry Fonda con cui Sidney avrebbe girato altri quattro film, rappresentò l’avvio di un percorso cinematografico sostenuto dal rapporto esemplare con gli interpreti. Ne La parola ai giurati si ritrovavano, in un’unico luogo, dodici giurati, coinvolti dalla tensione che si sviluppava nel rapporto, di convivenza e dialettica, tra undici di loro convinti della colpevolezza di un giovane e, al loro cospetto, la figura di un unico giurato esemplare. Questi, pervaso da una calma riflessiva, riusciva a persuadere gli altri che non esistevano indizi sufficienti per decretare la colpevolezza del giovane imputato. Fuori da un cinema urlato o declamatorio, Lumet, in un film dall’origine televisiva, si abituò a dare la scena ad attori eccellenti, che si sarebbero ritrovati, anche in futuro, felici di lavorare ancora con lui o per la loro prima volta con il regista, perché sovente, nel suo cinema, il tema della giustizia sarebbe stato declinato attraverso performance suscettibili di impreziosirsi grazie alle sfumature drammatiche sedimentate nel contesto indagatorio. Con La parola ai giurati, umiliazione e disonore avrebbero fatto il loro ingresso in un film disposto ad affrontare il razzismo e la violazione dei diritti civili. Lumet ricevette una candidatura al premio Oscar quale miglior regista ma soprattutto vinse con il suo primo film l’Orso d’oro a Berlino. Presto sarebbe diventato il regista di grandi star che proprio con Lumet restituirono alcune delle loro interpretazioni più celebrate. Con lui anche Sophia Loren (Quel tipo di donna, 1959), mentre Marlon Brando e Anna Magnani si ritrovarono insieme in Pelle di serpente (1960), dove ebbe modo di farsi notare in un ruolo secondario anche Joanne Woodward, moglie di Paul Newman, quest’ultimo a sua volta interprete di uno dei film più acclamati di Lumet, Il verdetto (1982), dove la figura crepuscolare di un avvocato divenne il vero motivo d’interesse di un racconto incentrato sul disincanto, piuttosto che sui meccanismi del dramma giudiziario. I grandi attori, con Lumet, divennero volti di una ricerca sui peripli dell’esistenza che contempla vite inquiete e scenari di disillusione: Il lungo viaggio verso la notte (1962) vide Ralph Richardson, Katherine Hepburn, Jason Robards e Dean Stockwell calati perfettamente nelle tinte crepuscolari della pièce di Eugene O’ Neill, mentre Henry Fonda fu un presidente degli Stati Uniti tesissimo e allarmato in A prova di errore (1964), sui temi dell’escalation atomica come Il dottor Stranamore ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare l’atomica (1964) di Stanley Kubrick. La critica europea manifestò un buon rapporto con Lumet e anche i festival, specialmente quello di Berlino, apprezzarono il suo lavoro. L’uomo dei banco dei pegni (1964) vide il celebrassimo Rod Steiger portare il metodo dell’Actor’s Studio alle vette recitative richieste dal suo personaggio, un sopravvissuto alla Shoah, mentre Sean Connery, al massimo della popolarità con il ruolo dell’agente 007, fece il suo ingresso con Lumet in un film diversamente coraggioso, La collina del disonore (1965), esemplare per la denuncia ai metodi disciplinari disumani in uso nelle armate anglosassoni, prendendosi una pausa dalla ribalderia del personaggio creato dalla penna di Fleming. Grazie a Lumet e al suo Quinto potere (1976), Peter Finch e Faye Dunaway vinsero entrambi l’oscar quali migliori attori protagonisti per un film, tratto dal romanzo Network di Paddy Chayefsky, che smascherava con drammaticità il modo in cui le grandi reti visive influenzano l’opinione pubblica. Una coerenza, quella di Lumet, sostenuta sino all’ultimo film, Onora il padre e la madre (2007), interpretato da Ethan Hawke, Philip Seymour Hoffman e Albert Finney, dove il cineasta avrebbe sperimentato ancora una volta con gli interpreti senza smettere di cercare la verità dietro gli indizi: anche sotto il profilo narrativo, l’ultimo film confermava la lenta e costante metamorfosi nel linguaggio, con una vicenda narrata in modo cronologicamente destrutturato. Il cinema moderno avrebbe lasciato il segno ineludibile in Lumet che impiegava sovente il flashback e guardava al racconto come linguaggio delle possibilità. La tensione espressiva di Lumet diede prova di grande coinvolgimento con molti interpreti, e la collaborazione con l’autore de La parola ai Giurati fu una tappa decisiva nella vicenda artistica di Al Pacino che con Lumet realizzò Serpico (1973) e Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975).
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