Ecce Bombo (1978), il secondo lungometraggio di Nanni Moretti, costa centottanta milioni di lire e incassa più di due miliardi, e il successo premia un lavoro che secondo l’autore doveva essere “un film doloroso per pochi, poi uscì il film e mi resi conto di aver fatto un film comico per molti”. Moretti afferma la sua autorialità e il suo metodo: d’ora innanzi i film, pur senza un disegno programmatico, avranno un po’ l’aspetto di laboratori di continuità, con attori e collaboratori che si avvicenderanno a dar volto di familiarità ai racconti. Alcune situazioni sembreranno talvolta anticipare momenti dei film successivi nel segno della coerenza e di un discorso che evolve, così come Ecce Bombo, con il precedente Io sono un autarchico, parrà come la seconda parte di un medesimo film, nella volontà di dare voce a quelle urla di Michele Apicella che liberano una psicologia nuova, dando spazio all’uscita dal grigiore di un ragazzo che vuole liberarsi dell’anonimato.
E’ un quadro sfaccettato e volutamente un po’ frastagliato di una condizione esistenziale, con Michele che parla con modi tutti suoi, prendendosi l’insofferenza anche maldestra di chi intende alzare la testa, e finisce per dare la fisionomia di un cinema che afferma un’identità nella propria dichiarata e auto-compiaciuta autarchia, momento di alternativa ai cosiddetti nuovi comici pronti a dare i loro frutti a partire dagli anni Ottanta (Verdone, Benigni, Troisi). Moretti cerca una sua strada ponendosi tra le crisi e i vuoti lasciati dopo la scomparsa dei grandi registi del neorealismo, come De Sica e Visconti, ma anche dopo il venir meno della propulsione offerta dal miglior cinema d’impegno civile o dell’epopea storica che ebbe in Rosi, Petri, Lizzani e Montaldo alcuni dei suoi nomi più credibili. L’autore alza subito la testa e propone una verve creativa che sorride beffarda, con un’ironia che quasi soltanto Federico Fellini, ancora recentemente omaggiato con un Oscar per Amarcord, sembra conservare. Tono caustico di un autore-attore, che intercetta nei suoi drammi agrodolci la dimensione crepuscolare e patetica di un individuo pronto a offrire, con le sue scivolate linguistiche (Michele che dichiara spudoratamente al telefono il suo innamoramento per Flaminia, che diverrà per un breve periodo la sua amante nonostante la distanza sempre mantenuta dalla ragazza), sprazzi delle sue turbinose giravolte esistenziali, creando un gusto che trova nel proprio autocompiacimento quella sintonia con il pubblico che si riconosce nelle idiosincrasie del protagonista.
Nasce il termine “morettismo” che caratterizzerà una fase e una cifra stilistica, la capacità di dar voce al proprio mondo coinvolgendo i paladini di un’immaginario anche evocato tra i riferimenti e persino tra i manifesti delle pareti di casa (qui Buster Keaton, ma in futuro anche Jerry Lewis – in Bianca – senza dimenticare Fellini e Woody Allen). In Ecce bombo si mette all’opera quella macchina narrativa che diviene vortice delle ansie che unisce una generazione attraversata dalle voci dei gruppi di autocoscienza, espressioni di una pluralità dove persino la casa del protagonista è, al contempo, uno spaccato della realtà del periodo ma anche luogo in cui lo scorrere del tempo trova un freno. La casa come luogo di accumulo per le tensioni di quel dialogo collettivo ancora espressione di un NOI generazionale animato, almeno nelle intenzioni, da un’etica solidale. Sin da qui, dal lungometraggio che lo rende un volto-segno di quegli anni, Moretti appare scomodo, nel tentativo (riuscito) di polemizzare con la retorica che riguarda anche la sinistra di cui egli è voce. E se la cura è un tentativo di cambiamento, la cura offerta in Ecce Bombo è una prospettiva di sguardo differente, con il solo intellettuale Michele che nel finale del film decide di andare a trovare una loro amica affetta da disturbi psichici (Lina Sastri), mentre tutti gli altri troveranno una scusa per non recarvisi, abili a intervenire con prosopopea sulla teoria degli sfruttati e del dolore soltanto quando si tratti di argomenti sulle pagine dei libri.
Cinema del dolore vero, dunque, e della consapevolezza di vivere tra le convenzioni e le ossessioni di una generazione, tra quei vezzi e quelle pose che portano l’egotista Michele a farsi “coach” degli amici pronti all’esame di maturità, che evidentemente vivono “fuori dal mondo” – ovverosia con beata abitudine nel loro piccolo mondo. Ne è un’espressione la sequenza del poeta Alvaro Rissa scelto come argomento di studio e portato all’esame di maturità, insieme momento di ribellione all’accademismo e di disorientamento che offre giustificazioni all’arte di arrangiarsi, con il giovane poeta, sconosciuto alla commissione esaminatrice, che si presenta in carne ed ossa, in quella che è giustamente ricordata come una delle pagine più spiazzanti e gustose di un film che fa molto sorridere nonostante l’amarezza di fondo.
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