Cinquant’anni sono un impercettibile lasso di tempo che tende all’eternità per un’opera scolpita nella storia del cinema come Morte a Venezia, secondo film della trilogia tedesca diretta da Luchino Visconti che uscì in sala proprio il 5 marzo 1971.
Un film, tratto dall’omonimo racconto di Thomas Mann, che in epoca di pandemia potrebbe essere – ed, in effetti, è stato – citato a sproposito, ma che merita di essere ricordato, ripercorso e rivisto con l’occhio innocente e curioso di ragazzini che per la prima volta si apprestano ad “incontrare” quella bellezza che nessuna aria malsana o corrotta può intaccare.
Qual è il momento migliore per arrivare a Venezia? L’alba, quando il sole, sorgendo, risveglia le forme a tratti austere e a tratti avvolgenti di una delle città più affascinanti, misteriose e controverse di sempre. L’alba è l’inizio, è un nuovo capitolo, è il torpore, l’indolenzimento, che si allontana dopo l’immobilità e il sonno profondo – a volte agitato, a volte lieto – di una notte intera. Ed è proprio all’alba che Gustav von Aschenbach, compositore in crisi, vestito della sua arroganza e di irrequietezza latente destinata ad esplodere, giunge al Lido di Venezia per un soggiorno ristoratore. Ogni certezza, ogni rigore imposto dalla società, dai benpensanti, dalla ragione, dai critici che hanno attaccato e dilaniato l’opera e l’intelletto dell’artista, svaniranno, soggiogate dall’irrazionale tumulto interiore provocato dall’incontro – fugace – con la bellezza assoluta di Tadzio, giovane polacco anch’esso in villeggiatura, con la famiglia.
Dionisiaco, apollineo e di nuovo dionisiaco, un cerchio che si apre e si chiude nello stesso punto, questa è l’esistenza di un uomo che creando ha rincorso a perdifiato la purezza e la perfezione senza mai poterla neppure sfiorare o sperare di comprenderla nella sua complessa totalità. Ma quando questa, in prossimità della fine si manifesta, ogni barriera, sovrastruttura, difesa, viene abbattuta. La metamorfosi di Aschenbach è radicale e irreversibile. Silenziosa, non ha bisogno di parole, basta uno sguardo, un impercettibile sorriso imposto da un’educazione formale per cedere il passo all’amore e al desiderio. Cosa spinge Aschenbach a restare a Venezia, a cercare Tadzio, a seguirlo, a mendicare un casuale incontro ravvicinato? La consapevolezza di aver finalmente, dopo anni e anni di ricerca, trovato l’essenza della vita della sua effimera durevolezza. Tadzio e la sua eterea e velata madre sono il miraggio dell’irraggiungibile, sono l’incarnazione della bellezza portatrice di morte. L’eros non può esistere senza il thanatos, tanto che tutto ciò che di più bello regna nel microcosmo di un luogo apparentemente idilliaco viene brutalmente deturpato da un insalubre puzzo di decadenza e di morte. L’epidemia di colera che i veneziani nascondono agli ignari villeggianti e che beffardamente viene negata anche dai musicisti, maschere macabre di un destino segnato, che come esperti Caronti traghettano con la musica verso l’altra sponda, è l’allegoria di una malattia molto più profonda che pianta le sue radici nel cuore dell’uomo e nel suo perverso bisogno di negarsi l’equilibrio.
Se questa è una lettura puramente filosofica di un’opera seducente e “pericolosa”, le immagini – eleganti e austere – permettono di dare una forma concreata a ragionamenti puramente astratti. La quasi totale assenza di dialoghi, l’incomunicabilità fra i protagonisti dettata dall’assenza di una lingua comune – Tadzio e la sua famiglia parlano solo il polacco – rende estetizzante e performante il potere e la forza del gesto e dello sguardo che si prendono i loro tempi – sempre dilatati – per poter innescare il meccanismo causa- effetto che mette in movimento la struttura narrativa. Quando per la prima volta Aschenbach scorge Tadzio nella hall dell’albergo sono necessari una serie di campi e controcampi per far sì che lo smarrimento improvviso provocato da un inaspettato tumulto interiore possa prendere forma. I giochi spensierati di Tadzio sulla spiaggia diventano bruciante bramosia di giovinezza nel momento esatto in cui il compositore, liberatosi dai pesanti fardelli delle perdite subite e mai elaborate, si adatta ad essi e li scolpisce nella sua mente. L’adolescente polacco diventa una febbricitante ossessione capace di risvegliare sensi ed emozioni sepolte dal peso del tempo e delle delusioni; da esse non si può fuggire, come non si può fuggire da una Venezia che diventa tomba sfarzosa per un artista alla ricerca dell’irraggiungibile. Aschenbach anela alla giovinezza perduta che solo una maschera grottesca e ridicola tenta brevemente di restituirgli prima di sciogliersi sotto l’effetto delle febbri mortali che determinano il tramonto decisivo – del giorno della vita – nella cui sfavillante e opaca luminosità si staglia l’esile figura del “divino” amato, proteso verso quell’infinito che nella sua immortalità lo ospita.
Ironico è pensare come questo capolavoro intriso di eleganza e maestria, sia il film dal punto di vista realizzativo più “modesto” di Visconti che, più che altrove, dimostra come si possa fare grande cinema con la forza delle idee, della ricercatezza e dell’ostinazione.
«Non sono io ad aver scelto Morte a Venezia, questa storia sceglie me da tutta una vita», disse il regista intervistato durante la lavorazione del film, a prova che sono le nostre piccole ossessioni ricorrenti a renderci chi siamo, a migliorarci e a condurci alla maturità necessaria per trasformarle in progetti realizzabili.
Morte a Venezia, riguardatelo non appena vi sarà possibile, è un film senza tempo, un’opera d’arte che ci fa crescere, e ci obbliga a metterci davanti ad uno specchio e a scavare dentro il nostro vissuto, aiutandoci a capire quanto siamo disposti a spingersi oltre per abbracciare il Dioniso che è in noi.
L’estetica e l’intensità di questo testo si sposano sia con la grandezza del racconto di Thomas Mann sia con le meraviglie del film di Visconti. Meraviglie al plurale perché ogni sequenza trasmette un’emozione diversa e, in certi passaggi, crescente.
L’opera di Visconti, infatti, non la si può guardare una volta sola. Ogni nuova visione produce una lettura più ricca della precedente. Una miriade di sfumature nel dramma di Aschembach. Sì, Eros e Morte sono inscindibili. E il sentimento disperato oltrepassa anche l’omosessualità perché abbraccia ogni innamoramento possibile. L’irrangiungibilità dell’oggetto amato è sinonimo di morte e infinito al tempo stesso.
Articolo magistrale!
Con un testo come questo non fai che innaffiare gli animi di un pubblico che in parte è addormentato. Come gettare schizzi d’acqua sui volti di chi è appisolato e ha bisogno di essere spinto a rivisitare quest’opera di Visconti.