Francis Ford Coppola, Martin Scorsese e Brian De Palma citarono Scarpette Rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger come uno dei loro film preferiti. In particolare Scorsese, nel 2009, insieme a Thelma Schoonmaker, si occupò di finanziare il restauro della pellicola. Presentato in concorso alla 13ª Mostra del cinema di Venezia, il film vinse 2 premi Oscar per la scenografia e la colonna sonora e nel 1999 il British Film Institute inserì Scarpette Rosse al nono posto della lista dei migliori cento film britannici del XX secolo.
A cosa è dovuta la passione e l’ammirazione nei confronti di questo film del 1948, in gran parte musicale e danzato, ispirato ad una fiaba? Innanzitutto alla maestria insuperata della sua realizzazione. Il direttore della fotografia, Jack Cardiff, scrive la storia del colore. La composizione figurativa del balletto di scarpette rosse risulta un capolavoro assoluto, nel quale, seguendo i passi di danza della protagonista, la realtà scompare e ballo e finzione cinematografica si fondono a formare un esperimento di magia, un sogno ad occhi aperti. I dipinti di Hein Heckroth, le coreografie di Robert Helpmann, la musica di Brian Easdale, rivoluzionano il genere musicale per come era stato concepito fino a quel momento. Ogni traccia di naturalismo e realismo scompare a favore di un’atmosfera onirica che asseconda e interpreta emozioni e sentimenti.
Scarpette Rosse racconta la passione ardente e divorante per l’Arte, ne analizza ogni aspetto: il gioco, l’incanto, il divertimento, la leggerezza, ma anche il sacrificio, la fatica, la rinuncia, il compromesso, infine, il delirio, fino alla morte.
Hans Christian Andersen, autore di favole romantiche e tragiche, con effetti particolarmente fatali sul corpo femminile (mutilazioni di lingua, piedi, morte per assideramento…), nel 1845 dà alla luce una fiaba nella quale immagina che un’orfanella, cresciuta, nonostante tutto, con affetto e diventata una splendida ragazza, abbia la vanità di indossare in ogni circostanza un paio di preziose scarpette rosso fiammeggiante, persino in chiesa e durante la sua cresima, abbandonando ogni modestia. Queste scarpette, forgiate dal demonio, la costringeranno a danzare senza posa, persino al funerale di colei che le ha fatto da madre, e questa danza frenetica e dionisiaca la porterà al sacrificio dei suoi piedi, infine alla morte.
Nel film, Vicky Page (l’esordiente Moira Shearer) è una giovane ballerina dai capelli rossi, a cui il celebre impresario Lermontov (l’eccezionale austriaco Anton Walbrook), suo pigmalione, pronostica una fulgida carriera artistica. Innamorata del giovane compositore Julian Craster, costretta a scegliere, dalla gelosia di Lermontov, tra arte e matrimonio, la ragazza abbandona l’amata compagnia di ballo.
Se la fiaba poteva risultare punitiva nei confronti dell’aspetto più libero e selvaggio della femminilità, rappresentato dalla scarpette rosse, anche il film, ad una lettura superficiale, può sembrare penalizzante nei riguardi della libertà di lavorare ed esprimere se stessa da parte di una donna. In realtà la perversione della situazione senza uscita nella quale si viene a trovare Vicky, proviene sia dalla gelosia smodata di un uomo che vive esclusivamente per l’Arte, un mostro senza cuore, come viene definito Lermontov, che dall’amore del marito compositore, che per primo è disposto a rinunciare ad ogni cosa, anche alla sua carriera, per lei, e immagina che la moglie debba fare lo stesso.
La rilettura in chiave femminista e politically correct di ogni opera d’arte, è un’operazione concettualmente fallimentare. Giudicare il passato con etica moderna rende miopi esattamente come cercare di capire il presente attraverso un’ottica desueta e trascorsa. Nel caso di Scarpette Rosse, stiamo poi parlando di un’opera d’arte consegnata al tempo come l’emblema romantico della passione portata alle sue conseguenze estreme. Gli echi di questo lavoro sono cupi e tragici e rimandano al Faust della tradizione letteraria europea, che pur di avere potere e conoscenza rinuncia alla sua stessa anima. L’orfanella di Andersen e la grande ballerina dei film, devono rinunciare alla vita.
Innocue scarpette, portatrici di sogni, forza e di libertà, erano invece apparse ai piedi della protagonista, Judy Garland, nel capolavoro cinematografico del 1939: Il Mago di Oz di Victor Fleming.
La potenza narrativa di questo mito dionisiaco è tale da diventare ispirazione anche per opere successive, tra le quali Il cigno nero di Darren Aronofsky del 2010, nel quale passione e follia viaggiano insieme creando una perfezione artistica bagnata di sangue. Come lo sono, sporche di sangue, spesso, le scarpette a punta dei ballerini professionisti ai massimi livelli.
Può risultare interessante citare infine un curioso episodio storico: “la piaga del ballo (o epidemia del ballo) del 1518 che avvenne a Strasburgo, Alsazia (allora parte del Sacro Romano Impero) nel luglio 1518. Circa 400 persone iniziarono a ballare per giorni, e, dopo all’incirca un mese, alcune di loro morirono di attacco cardiaco, ictus o affaticamento”.
Dai documenti dell’epoca si ricava che le persone colpite da questa “epidemia” affermavano di non voler ballare e di esserne costrette, loro malgrado. Tutto ciò porta ad ipotizzare che si sia trattato di un fenomeno di isteria di massa…molto probabilmente.
“Il tempo fugge, l’amore fugge, anche la vita fugge, ma le scarpette rosse danzano ancora.”
Lascia un commento