Il bambino con il pigiama a righe
Regia: Mark Herman; Guerra/Drammatico; Gran Bretagna/USA 2008
Interpreti: Asa Butterfield, David Thewlis, Vera Farmiga, Rupert Friend
Ore 21,05 Paramount Network, Canale 27; durata: 93’
Bruno, un bambino tedesco di otto anni, dai grandi occhi azzurri, trascorre il suo tempo nella sua grande e accogliente casa di Berlino, leggendo racconti di avventure e sognando di correre libero nei campi. La famiglia, composta da una madre premurosa, un padre gerarca nazista e una sorella minore, si deve trasferire in quella che viene annunciata come una nuova casa più bella. In realtà, siamo nel momento in cui i lager divengono luoghi della “soluzione finale” e la famiglia si deve trasferire in una grigia dimora situata nelle vicinanze di un campo di sterminio, dove il padre di Bruno eseguirà ossequioso gli ordini dell’alto comando. La nuova casa non è bella come la prima e questo “scatto di carriera” del padre, anche per il peggioramento “estetico” che comporta, sembra agli occhi del piccolo un controsenso. Il film, una produzione anglo-statunitense della Disney, è tratto dal racconto di John Boyne, e ha l’intento di mostrare le situazioni con gli occhi del bambino. La logica militare, i ragionamenti che il precettore cerca di inculcare a lui e alla sorella, i dogmi dell’hitleriano, tutti questi elementi suonano come parole stupide per il piccolo Bruno che vede maltrattare un servo con il pigiama a righe e che, annoiato dall’ambiente, fugge tra i campi e scopre un mondo insospettabile. Dietro il filo spinato, Shmuel, un bambino vestito con quello che sembra essere un pigiama a righe (proprio come quello del servo), gli suscita istintiva simpatia ed è il solo che sembra disposto ad aprirsi veramente a lui. Appena potrà, Bruno lascerà la sua opprimente abitazione e si metterà alla ricerca del piccolo Shmuel, e questi lo attenderà per giocare e parlare con li. Bruno gli porterà da mangiare, e si farà delle domande. Un giorno, la madre di Bruno scoprirà dalla voce di un militare che il fumo proveniente dalle ciminiere dei campi ha un’origine umana. La scoperta segna drammaticamente la donna che capisce di stare al fianco di un marito il quale, inglobato dalla logica della conformazione richiesta dal regime, è diventato un mostro pur professandosi un buono: per lui gli ebrei, come vuole Hitler, non sono persone ma un’anomalia biologica. Il precettore rincara la dose dicendo a Bruno che gli ebrei sono il male, e a quel punto il bambino chiede se possa esistere un bambino buono. Agli occhi di Bruno, candidi ed estranei al dannassimo fanatico dell’ideologia nazista, il bambino con il pigiama a righe che si offre di parlargli e di diventare suo amico non è un diverso, un pericolo, una non-persona, ma il solo bambino di otto anni in circolazione e il solo individuo grazie al quale scatta il meccanismo spontaneo e vitale del rispecchiamento.
Si potrebbe sottolineare che Il bambino con il pigiama a righe non è fedele alla realtà dei fatti come non lo è molto cinema occidentale pronto a ridestare gli spettri della Shoah. In special modo, per ciò che pertiene l’avvicinamento di Bruno al campo, che avviene senza che nessuno disturbi i suoi incontri con Shmuel, le fonti storiche ci segnalano come fosse impossibile che dai recinti di filo spinato le persone potessero interloquire: esistevano torrette pronte ad “intimidire” chiunque osasse avvicinarsi alle reti spinate e, sopratutto, i militari vigilavano affinché i campi rimanessero una realtà nettamente separata e nascosta alla società civile. Ma il film è piuttosto attento a valorizzare la relazione psicologica dei due giovani e si propone come un apologo sulla ricerca di uno sguardo libero, sul processo di conoscenza che passa attraverso la curiosità e il mettersi dal punto di vista dell’altro. Un film che si arresta al di qua della visione di morte rappresentata dalle camere a gas. Non si vedono i corpi accatastati che le immagini della liberazione di Auschwitz hanno consegnato alla Storia. Ma a quei corpi allude invece la catasta di bambole ritrovata da Bruno in cantina. Bruno muore con Shmuel ma noi non li vediamo. E per lungo tempo, anche la Shoah fu ritenuta un evento irrappresentabile: il baratro che contrassegnò quell’esperienza richiese tempo affinché artisti e intellettuali potessero dirsi pronti ad affrontarne il ritratto. In questa luce, si possono contestualizzare le accuse rivolte a chi sembrò fare del sensazionalismo, come nell’episodio della celebre critica rivolta dal baziniano Rivette a Kapò di Gillo Pontecorvo: esperienza di un’epoca in cui al linguaggio che osava si chiedeva di essere degno dei suoi propositi e si voleva, soprattutto, rispettoso dell’elaborazione che le ferite della Storia richiedono.
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