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Disponibile su Youtube L’odio di Mathieu Kassovitz

Luca Biscontini Articoli Giu 2nd, 2021 0 Comment

Disponibile su Youtube L’odio (La Haine), un film del 1995 scritto e diretto da Mathieu Kassovitz, vincitore del Premio per la miglior regia al Festival di Cannes. La pellicola, girata in bianco e nero, prende spunto dalla reale uccisione di un ragazzo delle banlieue di Parigi da parte della polizia. Nella versione originale i dialoghi sono in verlan, un gergo parigino caratterizzato dall’inversione delle sillabe di una parola per crearne una nuova. Con Vincent Cassel, Hubert Koundé, Saïd Taghmaoui, Abdel Ahmed Ghili.

Trama
In un quartiere periferico di una città francese come tante, fatto di miseria, etnie più o meno assortite e criminalità di vario genere, soffia il vento della rivolta. L’occasione che la fa esplodere è il brutale interrogatorio a cui la polizia sottopone un ragazzo di sedici anni. Nella lotta emergono le difficoltà e le differenti personalità di tutti i giovani che sono stati coinvolti. Non andrà bene per tutti.

«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.»
(La voce narrante di Hubert, nella scena iniziale)

Mathieu Kassovitz nel 1995 realizzò il suo capolavoro, L’odio, un film divenuto quasi un manifesto, capace di influenzare notevolmente la cultura dell’epoca in cui fece la sua apparizione. L’impatto che la pellicola ebbe a metà degli anni Novanta sull’immaginario del pubblico fu fortissimo, laddove la messa in scena, ruvida e al tempo stesso assai elaborata dal punto di vista formale, portò al massimo grado l’estetica del cinema delle periferie, un vero e proprio genere, a tutt’oggi molto in voga. Di più: L’odio, di cui Kassovitz scrisse soggetto e sceneggiatura, incarna perfettamente quel fenomeno narrativo e visivo che Gilles Deleuze, con una rapida e incisiva espressione, aveva elaborato nel suo Immagine-Tempo, ovvero l’andare a zonzo negli spazi sconnessi delle metropoli, che a partire dalla Nouvelle Vague divenne un topos eterno ritornante, ma sempre incisivo, poiché efficacissimo nel restituire la realtà spesso desolante, fredda e anaffettiva dei tessuti urbani post-moderni. In questo senso, e solo in questo, il film raccoglie l’eredità di quei registi francesi (Truffaut e Godard, in particolare) che utilizzarono per primi e meglio lo stilema in questione: difficile non pensare alle traversate di Parigi del piccolo Doinel ne I quattrocento colpi o al peregrinare di Paul ne Il maschio e la femmina (entrambi interpretati, tra l’altro, da Jean-Pierre Léaud).

Girato in bianco e nero, il film prendeva spunto dall’episodio brutale, realmente accaduto, che vide l’uccisione di un ragazzo delle banlieue della capitale francese da parte della polizia. Senza incagliarsi sull’aderenza della trasposizione cinematografica ai fatti di cronaca, questione senz’altro secondaria, ciò che si può elogiare senza indugio del lungometraggio di Kassovitz è la prospettiva, soggettiva e oggettiva al tempo stesso, attraverso cui il regista seppe far emergere la mancanza di senso di alcune – troppe – vite di giovani uomini, destinati, per la mancanza di una struttura sociale in grado di accoglierli e sostenerli, a brancolare nell’incertezza di un futuro senza speranza. Il loro movimento, per certi versi forsennato, è “falso”, nell’accezione prosaica del celebre capolavoro di Wim Wenders (Falso movimento). Anche lì c’era la rappresentazione di una generazione alla deriva (intellettuale e borghese); qui lo sbandamento, che investiva una sorta di redivivo sottoproletariato urbano, trova la totale complicità di un mondo che si allarga ma non accoglie, emarginando coloro che non sono riusciti a rientrare nello spazio salvifico di una “cittadinanza reale”.

Vinz, Hubert e Said (Vincent Cassel, Hubert Koundé e Saïd Taghmaoui) hanno perso ancor prima di cominciare a “giocare” una partita cui non possono, in verità, partecipare. La loro è una corsa annunciata verso la disfatta. Allora, in questo senso, Parigi, la città verso cui si muovono dalla periferia, diviene un mostro tentacolare che li attende per stritolarli o, nel migliori dei casi, ammonirli a tornare da dove sono venuti. Ma ne L’odio – questo è il merito di Kassovitz – il realismo, pur restituendo un impressionante quadro della devianza sociale, avvicina, anziché allontanare, lo spettatore rispetto alle figure dei tre protagonisti. La cinepresa, che è piazzata in mezzo a loro, e registra fedelmente il loro modo di pensare, finisce per creare un’inattesa forma d’empatia, in cui anche l’assurdità e l’avventatezza finiscono per giustificarsi, nel quadro di una filosofia perfettamente in linea con il carattere instabile e infido dell’ambiente circostante.

Questo è L’odio: uno sguardo monocromatico, rassegnato (si rifletta anche sull’aneddoto raccontato in una toilette da un allegro vecchietto) sull’inesorabile disfacimento del tessuto sociale, su una tragedia in fieri: la caduta – dapprima di un uomo solo, poi, dell’intera società – da un palazzo di cinquanta piani. Un meccanismo impazzito che si avvolge su se stesso e non smette di ruotare finché la sua carica di energia non evade dal circuito ed esplode. Il film, che vinse il Premio per la miglior regia al Festival di Cannes, fu un successo di critica e di incassi, ma provocò grandi polemiche in Francia per il suo punto di vista sulla violenza urbana e delle forze dell’ordine. L’allora primo ministro Alain Juppé organizzò una proiezione speciale chiedendo ai membri del suo dipartimento di partecipare, ma gli agenti presenti voltarono le spalle alla proiezione in segno di protesta contro il ritratto della brutalità della polizia rappresentato dal film.

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