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L’ingrata Torino non si ricorda più di Macario

Mario Galeotti Articoli Lug 13th, 2021 0 Comment

Erminio Macario, il celebre comico torinese scomparso nel marzo del 1980, diceva della sua Torino: “alla città ho sempre voluto bene, anche se a volte ho preso calci nel sedere”. Oggi le cose non sembrano essere cambiate molto, perché Torino non gli ha ancora dedicato una via o una piazza e non ha ancora provveduto a ricordarlo con una targa sulla facciata della casa in cui era nato, in via Botero. Come se non bastasse, il teatro Bomboniera di via Santa Teresa, voluto nel 1977 dall’attore per ospitare stabilmente la propria compagnia, dopo essersi trasformato negli anni Novanta in una discoteca ora è in stato di abbandono in attesa di un compratore. “Mio padre Macario è stato dimenticato”, ha detto con profonda amarezza il figlio Mauro in una recente intervista. E’ davvero un grande peccato, perché Macario, col suo viso tondo e il ricciolino sulla fronte, quando intratteneva e divertiva il pubblico spesso lo faceva proprio con un inconfondibile accento piemontese. Nella speranza che le istituzioni cittadine vogliano colmare al più presto questa grave lacuna, sul sito www.tuloconoscimacario.it è stata promossa una petizione per chiedere per l’appunto che Torino dedichi una via al suo Macario e per trovare i finanziamenti necessari alla realizzazione di una serie web in sei puntate concepita per omaggiare la carriera del comico piemontese attraverso testimonianze e ricordi inediti, foto, filmati di repertorio.

Macario era solito parlar di sé come di un “missionario d’allegria”, una definizione concisa e azzeccata, ma tante altre descrizioni del personaggio Macario sono state date da giornalisti e colleghi, che con parole di stima hanno espresso il loro apprezzamento per quell’esile, fanciullesco “omino”. Ennio Flaiano, nel 1940, scrisse recensendo la rivista Carosello di donne: “Eccovi davanti un ragazzo in buona salute, con un principio di pancetta e gli occhi sinceri. Non c’è bisogno di forzare l’immaginazione per cominciare a divertirsi; basta il fatto che un tipo simile esista perché il buonumore vi conquisti!”. Alberto Savinio, fratello di Giorgio De Chirico, disse che a vederlo veniva voglia di “vestirlo da marinaretto, condurlo a scuola per mano, aiutarlo a fare i compiti, educarlo a riporre per benino la sera il suo abituccio sulla sedia e rincalzargli le coperte”.

Erminio Macario era nato il 27 maggio del 1902 nel vecchio quartiere di Porta Palazzo. Fece le sue prime esperienze teatrali all’età di circa dodici anni, nell’oratorio salesiano di Don Bosco. Nel 1917, presso il circolo cattolico San Donato, diede vita a una compagnia amatoriale di recitazione e nello stesso tempo lavorava per aiutare la madre Albertina e le tre sorelle, dopo che il padre era partito per l’America. Nel 1919 decise di fare del teatro la sua vita. Rispondendo a un annuncio, lasciò la sua Torino per recarsi a Belgioioso dove entrò a far parte della compagnia di guitti del cavalier Salvetti, un gruppo di attori girovaghi che si esibivano in posti sperduti, in paesini di provincia e che, tra stenti e digiuni forzati, proponevano un repertorio fatto principalmente di drammi strappalacrime, farse, storie di cappa e spada. L’esperienza durò fino al 1923, anno in cui Macario tornò nella sua città per debuttare nel genere che più lo avrebbe contraddistinto: la rivista. Dapprima lavorò nella compagnia del coreografo e ballerino Giovanni Molasso e poi, nel 1925, fu scritturato da Isa Bluette. Il debutto come autore e capocomico risale al 1929 con la rivista La scoperta del mappamondo.

Macario era considerato l’inventore della rivista femminile. Nei suoi allestimenti la presenza di ballerine e soubrette, le cosiddette “donnine”, non rappresentava semplicemente un mero contorno, ma era un elemento caratterizzante. L’attore si attorniava di ragazze anche durante i suoi numeri comici, proponendo con gusto ed eleganza una femminilità che non era mai volgare o svilente e dove i sottintesi erotici non rischiavano mai di diventare offensivi.

A metà degli anni Trenta si parlò molto della rivista Mondo allegro, scritta dalla coppia Ripp e Bel-Ami, talmente sfarzosa da competere in grandiosità con gli spettacoli dei fratelli austriaci Schwartz. Nei primi anni Cinquanta, invece, la rivista Votate per Venere portò Macario anche a Parigi, dove ad applaudirlo ci fu il regista Jean Renoir, che gli disse: “per fare un film, mi basterebbe una strada, un carretto e te”. Ma nonostante la sua fama fosse legata alla commedia musicale, nel corso della sua lunga carriera il comico torinese è tornato più volte alla prosa, il genere in cui aveva esordito, ed è stato anche un volto amatissimo del cinema e della televisione.

Non si sbaglia affermando che Macario, per certi versi, abbia inventato il cinema comico italiano. Dopo il debutto nel film di Eugenio De Liguoro Aria di paese (1933), dove propose un personaggio a metà tra Charlie Chaplin e Harry Langdon senza però riscuotere alcun successo (come disse lo stesso Macario, per colpa di “una certa ingenuità e per la mancanza delle gag, delle trovate”), i film interpretati tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta furono un trionfo: Imputato, alzatevi! (1939), Lo vedi come sei? (1939), Non me lo dire! (1940), Il pirata sono io! (1940), tutti diretti da Mario Mattoli, Il chiromante di Oreste Biancoli (1941), Il fanciullo del West di Giorgio Ferroni (1943). Si trattava di pellicole nelle quali Macario riuscì a fare sfoggio di una irresistibile vena surreale, grazie anche al prezioso contributo di umoristi come Vittorio Metz e Giovanni Mosca che, facendo tesoro della loro esperienza nelle redazioni dei giornali satirici «Marc’Aurelio» e «Bertoldo», collaborarono all’elaborazione dei soggetti e delle sceneggiature. Aveva perfettamente ragione Macario quando diceva: “io facevo Jonesco quando Jonesco quasi non era nato”. Dialoghi e gesti strampalati anticiparono davvero il teatro dell’assurdo, e alcuni suoi tormentoni come “Lo vedi come sei? Lo vedi come sei?” rimasero a lungo nei ricordi e nelle abitudini del grande pubblico. Nei film del dopoguerra diretti da Carlo Borghesio (Come persi la guerra, 1947, L’eroe della strada, 1948, Come scopersi l’America, 1949, Il monello della strada, 1951) il personaggio cinematografico di Macario andò invece trasformandosi e, pur conservando in parte il carattere surreale, si rifaceva piuttosto al prototipo chapliniano già sperimentato in Aria di paese, epurato però di ogni minima traccia di cattiveria: perché se Charlot sapeva essere astuto e vendicativo, Macario era sempre buono e ingenuo, creatura dolce, stralunata, crepuscolare.

Dopo aver lavorato anche al fianco di Nino Taranto, Aldo Fabrizi e Totò e aver dato ottima prova in un ruolo drammatico (Italia piccola di Mario Soldati, 1957), l’ultimo film di Macario fu Due sul pianerottolo di Mario Amendola (1976), versione cinematografica dell’omonima commedia di Amendola e Bruno Corbucci portata a teatro, l’anno prima, insieme a Rita Pavone. L’ultimo spettacolo teatrale, invece, è stato Oplà, giochiamo insieme, con la regia del figlio Mauro, andato in scena nella stagione 1979/80.

Nel 2022 ricorreranno centoventi anni dalla nascita di Erminio Macario: confidiamo nel buon senso di autorità comunali e enti pubblici affinché venga finalmente raccolto l’accorato appello a rendere il giusto tributo a un artista che, nel corso di tutta la sua carriera, non ha mai voltato le spalle alla propria città.

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Mario Galeotti

(Sestri Levante, 1974) Dottore di ricerca, saggista e pubblicista, collabora con le testate InsideThe Show.it e Carte di Cinema. E' autore di diversi libri: ricordiamo "Dino l'amico italiano. Vita e carriera di Dean Martin" (Falsopiano, 2017), "Immagini e presenze americane nel cinema italiano" (Europa Edizioni, 2018), "Peter Cushing e i mostri dell'inferno" (Falsopiano, 2020), "Il mio nome è Moore, Roger Moore" (Weird Book, 2023).

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