Con L’uccello dalle piume di cristallo (1970) ci troviamo dalle parti del più sostanziale rinnovamento del thriller che emerge in un’atmosfera squisitamente italiana, nel senso di tematiche suggerite da cineasti quali Mario Bava (di cui Sei donne per l’assassino, del 1964, è l’antecedente argentiano più esplicito) e lasciate confluire all’interno di un cinema che fa suo il lavoro sui generi ma anche le istanze di autori internazionali, rilanciandole in una dimensione comunicativa immediatamente popolare. Il sadismo dell’assassino è portato alla luce senza sottintesi e i delitti diventano rituali che non rinnegano le palesi implicazioni psicosessuali. Voyeurismo, sadomasochismo, feticismo: elementi che rientrano a pieno regime nel nuovo cinema un po’ come la minigonna o il corpo nudo di donne in bella mostra. La dimensione del rituale è d’altronde annunciata sin dai titoli di testa de L’uccello dalle piume di cristallo, dove le mani dell’assassino con guanti in pelle accarezzano con sconcertante “pudica” delicatezza coltelli esposti sopra un pannolenci rosso.

L’uccello dalle piume di cristallo
Il cinema degli anni Settanta, dopo film come Conoscenza carnale (1971) di Mike Nichols o Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci, sulle orme del New American Cinema e degli autori più evoluti, recupera un “dialogo” con il corpo e il cinema di Argento si colloca a pieno titolo in questa dimensione di ascolto verso la denuncia di un malessere sociale che nel corpo individua il discrimine di un processo di liberazione. Il corpo lacerato, tagliato, violentato da coltelli e vetri impietosi, è l’incarnazione del martirio, in una versione estetizzata e pittorica, qualche volta persino troppo suggestiva o sensazionalistica ma rituale come i passaggi obbligati di una favola vissuta in terra.

L’uccello dalle piume di cristallo
L’uccello dalle piume di cristallo è un incubo di natura onirica il cui grande successo lancia un filone thriller all’Italiana di derivazione strettamente argentiana: viene messo da parte il mainstream dal tratto realistico per seguire la dimensione visionaria del cinema-sogno, sulla rotta di una poetica che trova in Luis Buñuel il grande cantore e dove l’esordio di Argento annuncia la condizione dello spettatore cinematografico calato nella dimensione fantastica, quella che vede Sam Dalmas (Tony Musante) assistere impotente il presunto omicidio nella galleria d’arte, in uno spazio rettangolare che rimanda al quadro cinematografico e precisamente al cinemascope. L’ingresso nelle pulsioni fantastiche corrisponde a un salto deliberato nella dimensione arcaica e sinistra in cui l’arte della rappresentazione ritrova killer dalle identità incerte, e personaggi come il commissario Morosini (Enrico Maria Salerno) che paiono venire dal mondo altro della realtà prosaica per fare capolino fermando momentaneamente il flusso allucinato della visione onirica. Talvolta la verosimiglianza sembra elusa dagli snodi del racconto, ma questo succede anche perché quello che stiamo vedendo a un certo punto obbedisce principalmente ai meccanismi del sogno, a una logica che non segue supinamente le regole dell’ordinarietà. Il thriller all’Italiana che trae sprone dal felice esito argentiano riesce a trasferire in forma giallo-orrorifica le tensioni che segnano in maniera profonda il periodo di disorientamento sociale in cui, negli anni Settanta, l’individuo si trova sovente solo, e Dalmas se vuole salvarsi è costretto a scoprire fino in fondo il significato di questo spiazzamento: è un’Italia del post-boom economico, in cui affiorano fratture nel rapporto tra il cittadino e la politica, dove l’alienazione del singolo corrisponde a scenari di perdita della sicurezza e dei punti fermi.

L’uccello dalle piume di cristallo
La critica dell’epoca non sempre ama il cinema di Argento, liquidandolo talvolta come un passatempo sospetto e semiedonistico. Se la miopia italiana non permetteva di scorgere la grandezza di un nuovo autore, ciò era ancora più grave pensando che Argento aveva esordito come collaboratore di “Paese sera”, quotidiano di area PCI, mentre quella che nel suo cinema sembrava disattenzione per le problematiche sociali era invece attenzione altra per aspetti del reale filtrati da un’estetica visionaria, dove le uccisioni di fanciulle disinibite e affermate non era di certo il rigurgito di uno sguardo passatista, ma quadro del disorientamento e delle pulsioni distruttive comunque in atto in una società in cui l’amore libero si confrontava con recrudescenze arcaiche.

Doppio Taglio
Ma il successo del film permise di far conoscere il nuovo regista nel mondo, e cineasti come Alan Pakula (Una squillo per l’ispettore Klute, 1971) e Richard Marquand (Doppio taglio, 1985), avrebbero mostrato presto la loro ammirazione adottando stilemi argentiani come l’inquadratura soggettiva dell’assassino intento a spiare la sua vittima o la presenza della cantilena per assecondare momenti di terrore, o la situazione della donna-vittima sul letto e la figura dell’assassino china su di lei. Prende il via un seguito di omaggi, influenze in cui nel cinema di autori internazionali il fascino ipnotico deriva anche dal senso di insicurezza dei protagonisti o delle figure femminili, insoddisfatte e perseguitate, talvolta indipendenti e nevrotiche (come la Jane Fonda del film di Pakula), espressione di tempi nuovi che attirano le attenzioni malsane e compulsive del sadismo maschile, il solo a poter essere definito a ragione reazionario (e non il cinema che mostra il nuovo quadro di riferimenti). L’uomo si muove impacciato, involontariamente o meno un po’ misogino e sicuramente turbato da quanto gli capita di vivere.

Una squillo per l’ispettore Klute
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