A luglio era stata diffusa la notizia che l’ottantacinquenne divo francese Alain Delon avrebbe presto avuto un posto nell’olimpo hollywoodiano con una stella a lui dedicata sulla Walk of Fame a Los Angeles, accanto a quelle di tante altre celebrità dello spettacolo. La cerimonia si sarebbe svolta nel marzo del 2022, in prossimità della nuova edizione degli Oscar. Ma da pochi giorni è arrivata dagli Stati Uniti la secca smentita. Una doccia fredda per l’attore francese, che pensava già di coronare la sua lunga carriera con il prestigioso riconoscimento americano e di presenziare insieme ai figli all’inaugurazione della stella lungo il celebre Hollywood Boulevard.
Nato a Sceaux, nel dipartimento dell’Hauts-de-Seine nella regione dell’ Île-de-France, l’8 novembre del 1935, Alain Delon ha trascorso un’infanzia difficile e una adolescenza irrequieta: la separazione dei genitori, l’affidamento prima ad una famiglia adottiva e poi a un collegio di suore. A 17 anni si arruolò nella marina francese e partì per l’Indocina, dov’era in corso la guerra tra l’esercito coloniale francese e il movimento per l’indipendenza del Vietman. I frequenti episodi di indisciplina lo portarono a collezionare un considerevole numero di giorni di consegna. Rientrato in Francia, dopo vari mestieri saltuari, il suo fascino ribelle gli consentì di allacciare utili conoscenze che ne facilitarono l’ingresso nel mondo del cinema. L’esordio è avvenuto nel 1957 con il regista Yves Allégret, che lo diresse nel film Godot (Quand la femme s’en mêle), dove interpretava un giovane sicario. Allégret gli disse: “voglio che tu sia tu, che ti muova come ti muovi tu, che cammini come cammini tu. Soprattutto non cercare di fare qualcosa, di recitare e d’interpretare un ruolo, sii te stesso e sarai il personaggio del mio film”. Quello che colpiva dell’imberbe Delon era il contrasto tra la sua giovinezza acerba e i modi bruschi, quasi da delinquente, tra il candore malinconico e una forza “persuasiva” (espressione che userà Luchino Visconti). Faccia d’angelo, ma con una forte personalità. Il primo vero ruolo da protagonista fu quello del sottotenente Franz Lobheiner nel film L’amante pura (Christine, 1958) diretto da Pierre Gaspard-Huit. La pellicola era ispirata a una pièce teatrale di Arthur Schnitzler da cui Max Ophüls aveva già tratto un film nel 1933, Amanti folli (Liebelei), in cui recitava Magda Schneider. A interpretare il ruolo femminile nel nuovo adattamento cinematografico della fine degli anni Cinquanta c’era la figlia di Magda, Romy Schneider, che lavorando accanto ad Alain Delon se ne innamorò e iniziò con lui una storia durata fino al 1964.
La produzione artistica di Delon, come attore ma anche come regista e produttore, copre un arco di tempo di oltre cinquant’anni. Ha lavorato con registi del calibro di René Clément, Michelangelo Antonioni, Julien Duvivier, Terence Young, Joseph Losey, Duccio Tessari, Jean-Luc Godard. La parentesi hollywoodiana a metà degli anni Sessanta (con L’ultimo omicidio di Ralph Nelson, Né onore né gloria di Mark Robson, Texas oltre il fiume di Michael Gordon) non lo entusiasmò particolarmente. “Non avrei mai potuto vivere in America. Mi annoiavo da morire” ha ricordato l’attore. Tornò a Hollywood nei primi anni Settanta per impersonare il sicario francese nel film Scorpio (di Michael Winner, 1973), ch’ebbe un grande successo di pubblico in Italia. Ma è soprattutto in patria e in Europa che Alain Delon è riuscito a dare vita a una serie di personaggi memorabili. Jean-Paul, lo scrittore fallito protagonista di La piscina (La piscine, di Jacques Deray, 1968), ambientato sullo sfondo idilliaco della soleggiata Costa Azzura, dove si celano pulsioni segrete e rancori che degenerano in delitto. L’indimenticabile gangster Roger Sartet in Il clan dei siciliani (Le clan des siciliens, di Henri Verneuil, 1969), pericoloso assassino al fianco di Lino Ventura e Jean Gabin. Il criminale Roch Siffredi in Borsalino di Jacques Deray (1970), film prodotto dallo stesso Delon, ambientato tra la malavita marsigliese degli anni Trenta, che coniuga sapientemente il noir con i toni della commedia. Il misterioso Jean Levigne in L’evaso (La Veuve Couderc, di Pierre Granier-Deferre, 1971), tratto dal romanzo di Georges Simenon. Nomade selvaggio in Lo zingaro (Le gitan, di José Giovanni, 1975). Il tormentato professore Daniele Dominici nel film di Valerio Zurlini La prima notte di quiete (1972), coprodotto dalla società di Delon. E poi il personaggio di Mr. Klein (1976), che il regista statunitense Joseph Losey ha definito “un avvoltoio, un egoista che ama la sua libertà e trae godimento dalla propria superiorità”, “intelligente, abile, crudele, implacabile”, che “ha poca o nessuna compassione e attitudine ad amare”.
Un altro capitolo della sua lunga carriera che è rimasto impresso nella memoria, soprattutto in Italia, è la collaborazione con Luchino Visconti nei film Rocco e i suoi fratelli (1960), dove interpretava il giovane originario della Lucania trasferitosi a Milano con la madre e i fratelli e avviato alla carriera di pugile (“Rocco, il più sensibile, il più spiritualmente complesso” aveva detto il regista parlando del suo personaggio), e Il Gattopardo (1963), nella parte del nobile Tancredi Falconeri, espressione di una “giovinezza rapace di potere e una sensualità consapevole della propria seduzione” per usare le parole del critico Roberto Chiesi. A questi due film va aggiunto il lavoro teatrale messo in scena da Visconti Dommage qu’elle soit une p…, tratto da una tragedia seicentesca del drammaturgo inglese John Ford. Molto si è detto dell’attrazione di Visconti per Alain Delon e del loro ambiguo rapporto. Renato Salvatori, che in Rocco e i suoi fratelli impersonava Simone, ha dichiarato: “non c’è mai stata una vera intesa tra Luchino e Delon. Ecco, Luchino era innamorato, questo sì. Lo curava al massimo, come si può curare un essere che uno ama. Comunque, Alain era già un attore. Bravo”. Ma Salvatori ha anche ricordato come Alain Delon fosse sempre stato soggiogato dal fascino aristocratico del regista, “dalla sua signorilità, dalla sua intelligenza”, come del resto tanti altri che hanno avuto modo di lavorare con lui. Helmut Berger, l’altro attore feticcio di Visconti e suo amante dichiarato, nell’autobiografia ha polemizzato su alcune lettere d’amore che Alain Delon avrebbe scritto a Visconti e lo ha accusato di voler portargli via il grande amore della sua vita, per puro calcolo, solo per ottenere nuovi importanti ruoli. L’ambiguità di questo rapporto gli è stata rinfacciata anche di recente, quando il divo francese, ospite di una trasmissione televisiva su France 5, si è lasciato andare a dure considerazioni sugli omosessuali definendoli “contro natura”.
Fortunatamente, oltre al discusso uomo Delon accusato spesso di essere fascista e prepotente (come alcuni dei suoi personaggi malavitosi), c’è anche l’attore. Un attore bello, multiforme, istintivo, dotato di talento e di un carisma magnetico, che nel 2019 ha ricevuto a Cannes la Palma d’Oro alla Carriera con la seguente motivazione: “Appartiene interamente al cinema, alle sue più belle opere e ai suoi miti”. Più volte Alain Delon aveva rifiutato il premio, ritenendo che la sua presenza a Cannes avesse un senso solo se funzionale alla celebrazione dei grandi registi che lo hanno diretto e reso famoso, primo fra tutti Luchino Visconti, con il quale aveva instaurato un rapporto intenso e discusso. Due anni fa si era finalmente convinto ad accettare la Palma d’Oro. Ora ci chiediamo se e quando sorgerà una stella a suo nome sulla Walk of Fame.
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