Il tempo è un bene prezioso e irreplicabile, soprattutto quello della giovinezza. Distribuito equamente nei tempi di crescita e invecchiamento, non per tutti ha la stessa durata. Ma se il progresso scientifico o un fenomeno eccezionale consentissero di poterne disporre e piacimento, di poter manipolare questo valore inestimabile che si muove e spande lungo ogni direzione dello spazio, cosa accadrebbe?
Con In Time (2011), il regista di fantascienza Andrew Niccol immagina che ogni persona della terra possieda, fin dalla nascita, un timer sul braccio che segna inesorabilmente la durata della sua vita: 25 anni. Solo chi ha modo di guadagnare il tempo, può vivere oltre quella data, senza però invecchiare. Questa giustizia, che deriva da una scoperta scientifica umana, è solo apparentemente tale. Infatti il povero, ingannato da un’inflazione crescente, muore presto mentre il ricco, se è davvero tale, può vivere in eterno. Una selezione innaturale, operata dall’uomo, definita capitalismo darwiniano, che riduce la sovrappopolazione ed è giustificata dal fatto che è da sempre il più forte a prevalere. Il risultato però, con le città divise per confini in base alle zone orarie – è che i poveri muoiono e i ricchi non vivono.
Il film In Time si ritrova a dover gestire un cast interamente composto da persone giovani e belle, i cui protagonisti, il rivoluzionario idealista senza un minuto in tasca, Justin Timberlake e la ribelle privilegiata Amanda Seyfried, devono fuggire da un custode del tempo che li incalza (Cillian Murphy) e un malvivente (Alex Pettyfer) che cerca di sfruttare la situazione.
L’idea di usare come valuta corrente il tempo (un caffè costa alcuni minuti) è interessante, come anche immaginare che la scienza con le sue scoperte, anche le più felici (vita e gioventù eterne), si voglia sostituire a Dio ma finisca col cedere alla legge del potente. Il tema non si discosta dall’opera prima capolavoro di Niccol, Gattaca – candidato nel 1998 all’Oscar per la migliore scenografia – che vedeva la selezione basata sull’eugenetica come elemento discriminante per una società di privilegiati, mentalmente e fisicamente superiori, a scapito di coloro nati senza selezione, quindi portatori di presunti o potenziali difetti, destinati ai lavori più umili. L’infelicità però, nonostante tutto, restava distribuita in parti uguali. Anzi, l’uomo dalle potenzialità infinite risultava depresso e schiacciato dalle aspettative mentre l’imperfetto, assetato di tutto, lottava con ciò che aveva per raggiungere scopi e sogni. Numeri e statistiche, percentuali ed evidenze scientifiche, crollavano di fronte alla forza di volontà e al potere dell’insondabile. Il giovane malnato Ethan Hawke era a tutti gli effetti un novello Ulisse, dotato di tutto quel che serve all’uomo: astuzia, curiosità, passione ed ostinazione. Se Gattaca poteva contare su suggestioni umanistiche e afflati trascendentali, In Time purtroppo non sfrutta le sue potenzialità e rimane solo un gradevole film d’azione.
Nonostante i rischi indicati dalla fantascienza, chi non vorrebbe rimanere per sempre giovane e bello, senza andare incontro alle misere sorti della vecchiaia? Ben lo sapeva lo scrittore Dino Buzzati, che ne “Il Deserto dei Tartari” col concetto del tempo aveva giocato in lungo e in largo, dilatandolo, trasformandolo in chimera ed attesa infinita. Nel racconto breve “Cacciatori di Vecchi”, raccontava invece di una caccia spietata al vecchio, reo di essere tale e quindi punibile nel suo desiderio illecito di continuare a volersi godere la vita e che si concludeva con un tempo improvvisamente giustiziere, ristretto per magia ad indicare una sorte comune.
Riprendendo Il Faust di Goethe, Oscar Wilde aveva creato una delle sue opere più belle: Il Ritratto di Dorian Gray. Nel 1890, anno dell’uscita del romanzo, i tempi erano già cambiati e l’anima si vendeva non più in cambio di conoscenza e sapienza infinite ma bellezza e gioventù eterne.
La commedia nera di Robert Zemeckis La Morte ti fa Bella – Oscar agli effetti speciali nel 1993 – affronta esattamente questo argomento. Ma, scendendo sempre più in basso nella scala sulfurea, non è tanto il desiderio di preservare doti eccezionali – che le protagoniste del film, deliziosamente mediocri in tutto, anche nelle ambizioni, non possiedono – quanto di superare, per pura invidia, l’altra. Riunendo una manciata di superstar di quegli anni: Meryl Streep, Goldie Hawn, Bruce Willis e Isabella Rossellini , Zemeckis racconta infatti la rivalità – destinata a divenire eterna – tra due amiche, in continua competizione, soprattutto per un uomo. Dopo aver provato ogni tipo di ritrovato scientifico e di chirurgia plastica pur di risultare una migliore dell’altra, troveranno il modo di conquistare la gioventù eterna grazie “ad un tocco di magia in un mondo ossessionato dalla scienza“.
La morte ti fa bella diverte e fa un po’ inorridire, giocando con le ossessioni della nostra era. La distanza tra bellezza perfetta e mostruosità è più sottile di quello che crediamo – come ben mostrano i volti tutti identici e privi di età anagrafica di uomini e donne che hanno ecceduto con i ritocchi. Che si invochi il divino, la magia o la comunità scuentifica – c’è differenza? – il monito è sempre lo stesso: mai volere troppo, mai mettersi al posto del creatore, andando contro le leggi naturali e dimenticando giustizia, pietà e umanità.
Ci ricascano, loro malgrado, i protagonisti di Old (Vicky Krieps, Gael García Bernal, Rufus Sewell) l’ultimo film del maestro della suspance M. Night Shyamalan. Famigliole con prole o coppie alle prese con problemi di varia entità, si ritrovano in vacanza sull’isola dei loro sogni, trovata su Internet.
Il timore di invecchiare, il disgusto per l’imperfezione, la ricerca chimerica di una felicità perfetta, saranno le loro colpe – ma anche le nostre che guardiamo – punite nel più orrendo dei modi, anche attraverso la sofferenza e la morte dei propri figli. Il regista riflette sul senso del tempo, che porta via alcune cose ma ne dona altre, che è pacere e al contempo giustiziere, che cancella il superfluo e fa emergere sempre, alla resa dei conti, la verità.
L’inverosimile e il fantastico hanno sempre una spiegazione, più o meno razionale, certamente logica, per Shyamalan. E di nuovo emerge protagonista la scienza, un tempo luce nelle tenebre dell’ignoranza, oggi sempre più matrigna, master of puppets degli ignari consumatori di vita e di merce, rei di scambiare spesso una cosa per l’altra.
Se su alcune cose ci illudiamo di avere potere nel corso della vita, il tempo da sempre sfugge al nostro controllo. Possiamo provare a predarlo, ad impossessarcene in modo illecito, fatale, scientifico. A manipolarlo, annullarlo, sfregiarlo, inghiottirlo, magari trascorrendo ore sui social. Ma sempre esso ritorna carico delle antiche paure. La soluzione, diversa per ognuno, forse è quella arrendersi e farsi portare via – altrove – da quell’eterno divenire, trasformarsi, morire e rinascere che porta con sè dolore, ma anche una promessa d’eternità.
“Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai”.
(Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari)
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