Disponibile su RaiPlay La viaccia, un film del 1961 diretto da Mauro Bolognini, liberamente tratto dal romanzo L’eredità (1889) di Mario Pratesi, interpretato da Jean-Paul Belmondo e Claudia Cardinale. È stato presentato in concorso al 14º Festival di Cannes. Prodotto da Alfredo Bini, sceneggiato da Vasco Pratolini, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, con la fotografia di Leondia Barboni, il montaggio di Nino Baragli, le scenografie di Flavio Mogherini, i costumi di Piero Tosi e le musiche di Piero Piccioni, La viaccia è interpretato da Jean-Paul Belmondo, Claudia Cardinale, Pietro Germi, Romolo Valli, Gabriella Pallotta, Paul Frankeur, Gina Sammarco, Emma Baron, Paola Pitagora. Il film vinse due Nastri D’Argento nel 1962 per i migliori costumi e la migliore scenografia.
Trama
Amerigo, figlio di Stefano, si reca a Firenze a lavorare nella bottega dello zio Nando. In una casa d’appuntamento conosce e si innamora di Bianca. Per racimolare i soldi necessari per continuare a vederla, Amerigo non si fa scrupolo di rubare soldi allo zio. Il ragazzo, colto sul fatto, viene cacciato di casa ed è costretto a tornare a casa. Ma il padre non vuole sentire ragioni e lo riaccompagna a Firenze. Cacciato ancora una volta dallo zio, Amerigo, che continua a vedere Bianca, viene accoltellato da un amico della donna.
Mauro Bolognini, il raffinato autore di indimenticabili capolavori quali La notte brava (1959) e Il bell’Antonio (1960), nel 1961 realizzava un’opera assai significativa, La viaccia, tratta dall’omonimo romanzo di Mario Pratesi, sceneggiata dallo scrittore Vasco Pratolini (Metello, una storia italiana), Pasquale Festa Campanile (che poco dopo comincerà la sua brillante carriera dietro la macchina da presa) e Massimo Franciosa (che contribuì alla scrittura di film decisivi: Il gattopardo e Le quattro giornate di Napoli), e interpretata da due giganti come Jean-Paul Belmondo e Claudia Cardinale, oltre che dall’ottimo Pietro Germi, e dal sempre opportuno Romolo Valli.
Firenze, 1885. Il film inizia sul letto di morte del patriarca della famiglia Casamonti, il quale, come sua ultima volontà, vorrebbe lasciare il podere a Stefano (Germi), in quanto lo ritiene l’unico in grado di poterlo gestire adeguatamente. Dopo il trapasso, invece, subentra il fratello Ferdinando (un buon Paul Frankeur) che convince gli altri membri a cedergli le loro quote senza incontrare resistenze, giacché la sua precaria salute presagisce una nuova e non lontana eredità da spartire. Per imbonirsi Ferdinando, Stefano spedisce il figlio Ghigo (Belmondo) a Firenze nella sua bottega di vignaiolo, ed è proprio lì che il giovane, vissuto sempre nel rigore della campagna, fa esperienza della licenziosità della città e, sottraendo regolarmente alcune piccole somme di denaro dalla cassa dello zio, comincia a frequentare una lussuosa casa d’appuntamenti dove incontra la splendida Bianca (Cardinale), di cui s’innamora a prima vista. Dopo aver scoperto i suoi furti lo zio lo rispedisce alla viaccia, pretendendo da Stefano un cospicuo risarcimento per il danno subito. Ma ormai Ghigo non tollera più quelle vita e, dopo aver espresso il suo disprezzo nei confronti del padre, di cui contesta l’incapacità di guardare oltre all’angusta vita contadina, torna in città. Bianca, nel frattempo, lo ha sostituito con un altro giovanotto, ma, nonostante sia uno spiantato, accetta il corteggiamento di Ghigo e soprattutto la sua richiesta di farle cambiare vita e cominciare insieme un nuovo percorso. Il finale è amaro e ricorda assai, se non altro per la posa in cui viene ritratto Belmondo nell’ultima inquadratura, Il bidone di Fellini, in cui, alla fine, Broderick Crawford si spegneva in una lenta e inesorabile agonia.
Il protagonista del film incarna il passaggio da una società fondamentalmente rurale ad una in cui si stava sviluppando una cultura urbana, fatta di commercio, ricchezza, lascivia, decadenza, cinismo, di contro alla probità della vita contadina che preservava intatta la sua integrità (sebbene nel film venga fortemente stigmatizzata la meschinità dei rapporti interni alla famiglia Casamonti, soprattutto in merito all’eredità del podere, evocando, per il realismo delle situazioni descritte, il verismo del Verga di Mastro Don Gesualdo). Il mondo borghese si stava sempre più radicando e Ghigho, assai affascinato dalla sua brillantezza, rimane fatalmente intrappolato: non più contadino, ma neanche cittadino. A Firenze regna la logica del profitto, del piacere, e tutto è in compravendita (compreso l’amore), e particolarmente significativa in tal senso è la sequenza dell’improvvisato ballo in maschera all’interno del bordello, in cui esplode una disperata vitalità che immalinconisce non poco.
A impreziosire ulteriormente l’opera è la figuratività di Bolognini che rifacendosi ai Macchiaioli costruisce alcune preziose inquadrature che rievocano non poco la corrente pittorica amata dal regista. Per tale motivo, molta critica lo accusò di formalismo, ma, a rivederlo dopo tanti anni, La viaccia appare invece in perfetto equilibrio tra l’esigenza di testimoniare una fase storica, quella successiva all’unificazione, con le sue idiosincrasie e problematiche, tutte da affrontare, e quella di comporre sul piano visivo dei quadri che potessero calamitare lo sguardo dello spettatore, facendolo sempre più penetrare all’interno della vicenda narrata. Una forma al servizio del contenuto, di una storia esemplare che rendeva conto del difficile passaggio da una fase (ancora agricola) all’altra (industriale). In tal senso, il film di Bolognini costituisce a tutt’oggi un indispensabile documento di un significativo pezzo di storia del nostro paese.
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