Brian De Palma e Martin Scorsese sono stati grandi estimatori del film L’Occhio che Uccide, eppure alla sua uscita le critiche furono aspre e violente, autentici attacchi personali a Michael Powell, regista britannico già autore di classici capolavori della storia del cinema come Scarpette Rosse, colpevole di aver girato un film che fu recepito come indecente, amorale e scioccante. L’Occhio che Uccide dovette essere ritirato rapidamente dalle sale.
Il critico Derek Hill sulle pagine del Tribune affermò: «L’unica maniera veramente soddisfacente di disporre di L’occhio che uccide è prenderlo con la paletta e buttarlo subito nel gabinetto più vicino, tirando l’acqua. E anche così se ne continuerebbe a sentire la puzza». Era solo il 1960 e in quello stesso anno usciva Psyco di Alfred Hitchcok, che toccava tematiche audaci per la morale del tempo, ma in modo meno diretto e dirompente e che ebbe infatti un immediato successo di pubblico.
L’Occhio che Uccide è considerato il primo e vero slasher movie: il protagonista trafigge serialmente giovani donne con un pugnale montato sul treppiedi della sua telecamera, riprendendo la vittima che nel frattempo è costretta anche a guardarsi in uno specchio, a vedere il suo volto nel momento della morte, per provare il massimo terrore possibile. Quale è infatti la cosa più spaventosa al mondo, se non la paura stessa? Queste tematiche terrificanti saranno apprezzate e approfondite solo negli anni 70 ed erano ancora difficilmente digeribili un decennio prima.
Il protagonista della storia, Mark Lewis (Karlheinz Böhm) è un ragazzo malato di scopofilia in modo molto grave. Fin dalle prime inquadrature assistiamo al delitto di una prostituta e siamo già a conoscenza del colpevole, anche se non lo abbiamo ancora visto direttamente in azione. Non si tratta quindi di un giallo o di un thriller. Il fine del regista è ben più profondo e metafilmico, quello di indurre una graduale identificazione emotiva, fino al sovrapponimento dello sguardo (che uccide) tra lo spettatore e l’assassino. Esattamente come noi nel momento in cui guardiamo il film, il protagonista prova piacere e interesse, riesce ad emozionarsi, emotivamente e sessualmente, osservando le emozioni delle altre persone. Egli non riesce a viverle direttamente ma solo attraverso lo specchio della cinepresa, solo attraverso il suo terzo occhio, demoniaco, infernale eredità della pazzia paterna. Quello che lo eccita più di tutto è proprio la paura.
Schivo, timido, di bell’aspetto, il giovane Mark è segnato da un’infanzia atroce, con un padre scienziato tanto geniale quanto folle che lo ha torturato fin dalla più tenera infanzia allo scopo di indagare i processi della paura. Di mestiere fa il cineoperatore ed arrotonda lo stipendio fotografando donnine seminude per un giornalaio. L’incontro con la giovane vicina di casa, un’aspirante scrittrice che vive con una mamma cieca (ma quanto hanno attinto a questo film Dario Argento e simili?) potrebbe cambiare la sua vita, se non fosse troppo tardi. La ragazza, che lo ama, ricambiata, ha appena scritto un libro per bambini nel quale una macchina da presa magica fotografa le persone con il loro vero volto, quello che avevano da bambini. Sostanzialmente Mark ed Helen sono le due facce della stessa pellicola, lei è il positivo, la normalità, lui il negativo, l’oscurità, la deformità. Helen è capace di vedere il bambino che è stato Mark: bisognoso di affetto, con una mamma morta precocemente e rimasto solo nelle mani di un genitore folle. Interessante notare come, nel progetto inziale di Powell, poi abbandonato, ci fosse la biografia della vita privata dello psicanalista Sigmund Freud.
L’Occhio che uccide è, paradossalmente, una tenera storia d’amore che cerca di resistere e sopravvivere nonostante tutto – il protagonista fa anche un tentativo per inziare a curarsi, incompreso – ed il sentimento porta con sè la compassione per l’autore dei delitti, divenuto mostro suo malgrado. Gli spettatori si ritrovano nella scomoda posizione di provare un’acuta pietà, del tutto straniante, come avvenne per il capolavoro M – il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang.
Mark si tocca il viso, Mark si tocca il petto, proprio come fa la ragazza di fronte a lui, nel momento in cui si trova privo di telecamera e cerca di codificare le sue emozioni, di scindersi dall’altro ed avere consapevolezza di sè stesso, come non gli è stato consentito di fare, mai, da bambino. I suoi movimenti sono grotteschi e strazianti.
L’uomo che diventa tutt’uno con una macchina, che diventa la macchina, è una tematica modernissima e disturbante che non poteva essere accolta e compresa nel 1960, ma che Powell porta avanti con la naturalezza di una love story, innovativo e geniale al punto di non rendersi neppure conto di correre decenni avanti rispetto ai suoi coevi.
Così audace sarebbe stato solo David Cronenberg negli anni 80 con Videodrome, stigmatizzando in una storia visivamente sempre più delirante il rapporto morboso tra lo spettatore e la tv, lo sguardo dell’uno che diventa carne dell’altro, fino ad una fusione fatale e mortale, un processo inarrestabile che dona all’uomo l’immortalità di una vita senza vita.
E’ possibile vedere il film completo in italiano dal seguente link di YouTube:
Lascia un commento