Che cos’è un capolavoro?: è un’opera in cui la rappresentazione della realtà è sottoposta a una torsione tale da provocare un rovesciamento delle prospettive e delle forme usuali, con un’immediatezza e un vigore che confondono, e al tempo stesso estasiano, coloro che ne fruiscono. Fino all’ultimo respiro (1960) scuote lo spettatore con un sonoro ceffone, destandolo dal torpore in cui era immerso, per poi deliziarlo con trovate visive impareggiabili, spazzando via, in un sol colpo, tutte le sedimentazioni accumulate nello scaffale dell’immaginario.
Il film manifesto della Nouvelle Vague realizzava quanto i nuovi registi francesi (Truffaut, Chabrol, Rohmer, Rivette) avevano fortemente sostenuto nella rivista di critica cinematografica Cahiers du cinèma, ossia la volontà di sbarazzarsi del cinema classico francese (Carnè, Duvivier) per confrontarsi, attraverso nuove modalità, con i grandi autori americani (Hitchcock, Ray, Hawks). La storia messa in scena è tratta da un breve soggetto che Francoise Truffaut aveva scritto ispirandosi a un fatto di cronaca verificatosi in Francia alla fine degli anni ’50: un banditello, dopo aver rubato un’auto e ucciso un poliziotto, intraprende una scapestrata fuga con la sua amante verso l’Italia, prima di essere braccato e ucciso dalla polizia. Jean-Luc Godard non ne ricavò neanche una sceneggiatura, limitandosi a compilare quotidianamente un piccolo registro di riferimento, che disattendeva sistematicamente durante le riprese.
La rivoluzione sintattica che stava mettendo in atto avrebbe scardinato irreversibilmente le regole acquisite, portando una ventata d’aria nuova sulla stantia “macchina” cinematografica. La frantumazione dinamica delle scene eseguita con i celeberrimi “jump-cut” (salto nel montaggio) opera una decisa sintesi narrativa, oltre a restituire la frenesia psicologica dei personaggi, mentre i vari piani-sequenza possiedono una forza espressiva tale da attestare inequivocabilmente l’emancipazione semantica dell’immagine rispetto al “testo a monte”. Ma l’anticonvenzionalità di À bout de souffle, a differenza di altre pellicole d’avanguardia, riesce a non assumere quel tono accademico che ne avrebbe fatto il feticcio dei soliti cinefili. La leggerezza che trapela tra le pieghe della drammaticità del racconto dona un’atmosfera picaresca che desacralizza le innovazioni stilistiche apportate. Le innumerevoli trovate del film – prima fra tutte il leggendario movimento del pollice con cui Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) si sfiora le labbra – sono divenute archetipi dell’iconografia contemporanea.
Tra le tante sequenze degne di note, si distingue particolarmente l’ultima in cui il nostro anti-eroe, colpito mortalmente alle spalle, cade a terra e, anziché pronunciare le frasi di rito prima di spirare, ripropone goliardicamente le varie smorfie della faccia mimate durante l’intero arco del film. Dopo il decesso, Patricia (Jean Seberg), la fidanzata, non si scompone, il suo volto imperturbabile guarda in camera, mentre ripete, con automatismo inquietante, il celeberrimo gesto del pollice. Si potrebbe ironicamente pensare che la ragazza abbia istantaneamente introiettato il defunto, compiendo quella narcisizzazione dell’estinto che caratterizza l’elaborazione freudiana del lutto, ma questo psicologismo pret-a-portè può far giusto sorridere. In realtà è il carattere anti-narrativo del film che ci spiazza, sbeffeggiandoci.
Jean-Luc Godard ha percorso un itinerario cinematografico molto complesso e diversificato, praticando una sperimentazione forsennata che spesso ha frastornato un pubblico non ancora del tutto pronto alle acrobazie stilistiche proposte. Chi conosce e ama Godard sa perfettamente che la condizione preliminare da cui è stato sempre ispirato risiede in quel famoso adagio contenuto nella parte conclusiva del saggio di Walter Benjamin, quando lapidariamente si afferma: “Il fascismo persegue l’estetizzazione della politica. Il comunismo gli risponde politicizzando l’arte”.
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