Eduardo Scarpetta (Napoli 1853 – 1925), il celebre commediografo e attore che fu protagonista indiscusso della scena napoletana tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è la controversa figura di uomo e di artista al centro del film biografico Qui rido io di Mario Martone (2021), presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Acclamato per le sue irresistibili interpretazioni del personaggio di Felice Sciosciammocca (“sciosciammocca” è un’espressione che in dialetto napoletano sta per “credulone”, “boccalone”), col quale aveva affossato l’egemonica maschera di Pulcinella, Scarpetta è stato l’autore di farse rimaste nella memorie, alcune delle quali immortalate molti anni dopo da Totò sul grande schermo: Miseria e nobiltà, Un turco napoletano, Il medico dei pazzi.
Anche se non rispetta fedelmente l’effettiva cronologia degli eventi, il film di Martone, tutto recitato in dialetto con sottotitoli, si lascia ammirare per la scrupolosa ricostruzione degli ambienti dell’epoca, nella Napoli bene dell’Italia giolittiana, e soprattutto per la scelta dell’attore chiamato a interpretare Scarpetta: Toni Servillo, mattatore del cinema contemporaneo, perfettamente a suo agio nei panni di un mattatore del teatro napoletano di oltre un secolo addietro. Qui rido io ci regala momenti di particolare efficacia: il dietro le quinte della rappresentazione di Miseria e nobiltà, con un piccolo Eduardo De Filippo (Alessandro Manna) dallo sguardo malinconico; l’incontro surreale con il vate Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon), interrotto nelle sue lascive occupazioni, che accoglie Scarpetta in vestaglia di seta e lascia ambiguamente intendere di voler autorizzare (solo verbalmente) una parodia del suo dramma La figlia di Iorio, salvo poi intentare una causa per plagio durata dal 1906 al 1908: l’accorata relazione del filosofo Benedetto Croce (Lino Musella) a sostegno del protagonista nel processo; l’autodifesa di Scarpetta in tribunale, con l’aula che si trasforma nell’improvvisato palcoscenico per le ironiche esternazioni del primattore. Ma tutt’altro che agiografico, il film mostra anche gli aspetti poco piacevoli di una personalità che, al di là del talento artistico, non si lascia certo ammirare per la sua indole dispotica, la sua ambizione sfrenata (con gli incassi della commedia ‘na Santarella si era fatto costruire una sontuosa villa sulla collina del Vomero, battezzata Villa La Santarella, sulla cui facciata fece scrivere la frase che dà il titolo al film: “Qui rido io!”), il suo egocentrismo e, negli affetti familiari, un egoismo imperdonabile. Sgradevole padre padrone di una strana famiglia allargata, Scarpetta si era sposato nel 1876 con Rosa De Filippo (nel film impersonata da Maria Nazionale), figlia di un commerciante, ma collezionò anche svariate amanti ed ebbe almeno nove figli, di cui tre riconosciuti (anche se solo uno avuto effettivamente dalla moglie, Vincenzo Scarpetta, anch’egli attore, nel film interpretato da un vero discendente di Eduardo Scarpetta e suo omonimo) e tutti gli altri rimasti illegittimi, avuti da relazioni extraconiugali.
Tra quest’ultimi spiccano ovviamente i fratelli De Filippo: Titina (Marzia Onorato), Eduardo e Peppino (Salvatore Battista), nati rispettivamente nel 1898, nel 1900 e nel 1903, che mantennero il cognome della madre, Luisa De Filippo (Cristiana Dell’Anna), la giovane e bella nipote di donna Rosa che lavorava come sarta nella compagnia di Scarpetta. Nel film li vediamo tutti e tre, bambini, costretti a chiamare “zio” il loro padre naturale: Titina è seria e volenterosa, Eduardo ha gli occhi languidi e mostra già il suo precoce genio di drammaturgo, Peppino è il più piccolo, paffuto, vivace e irrequieto, cresciuto a balia presso un’umile famiglia di Caivano fino all’età di cinque anni. Dei tre, Peppino è quello che più di tutti soffre per una situazione affettiva a dir poco insolita. Peppino ama la campagna e gli animali e quando torna a Napoli mostra il suo malcontento e un’indifferenza (forse peggiore dell’odio) per un padre che, sì lo mantiene, ma non lo ha voluto riconoscere, così come non ha riconosciuto i suoi fratelli, e non dimostra l’affetto di cui lui ha tanto bisogno. Nel film, Eduardo Scarpetta ride nelle festose riunioni della domenica o quando intrattiene i suoi illustri ospiti (vediamo, tra gli altri, Salvatore Di Giacomo e Libero Bovio) nella grande terrazza di Villa La Santarella. Il piccolo Peppino, invece, non ride mai, cova rabbia e risentimento. Più che un film sulle glorie e le cadute del grande Scarpetta, Qui rido io può essere visto come il racconto della parabola ascendente dei fratelli De Filippo, che dopo un’infanzia non certo felicissima vissuta in seno a una “famiglia difficile” (pensiamo anche alla brutale immagine di mamma Luisa che strappa le pagine dei primi copioni scritti dal talentuoso Eduardo, accusandolo di voler scimmiottare il genio di “zio” Scarpetta) sarebbero diventati una delle più grandi famiglie di commedianti del teatro e del cinema italiani del ‘900. Non è un caso che la pellicola si concluda con una bella fotografia di repertorio di Titina, Eduardo e Peppino, già adulti e artisti affermati.
Una famiglia difficile è il titolo di un libro autobiografico che Peppino De Filippo pubblicò nel 1977 e in cui rievocava gli anni della sua infanzia, riservando parole molto dure al padre/zio, a differenza del fratello Eduardo che per tutta la vita è sempre stato restio a pronunciarsi in merito al proprio rapporto con Scarpetta e si limitava a definirlo un grande attore, riformatore del teatro napoletano. Peppino non nascose mai l’acredine nei confronti del severo genitore e il profondo senso di umiliazione che accomunava tutti i bambini costretti a portare il cognome della madre: figlio di “N.N.”. Scrisse nel libro:
“Tipo di uomo eccentrico e dotato di scaltrezza temibile che in verità costituiva il suo charme più travolgente, provvisto di una insaziabile curiosità si gettava avidamente su tutto ciò che gli era di gradimento, onde portarne via la parte più gustosa. Cinico e diffidente verso tutto e tutti. E la sua diffidenza, il suo cinismo lo portavano ad essere l’uomo delle situazioni disperate, che nulla riesce a fermare, insensibile a qualsiasi delusione, privo di scrupoli e sempre pronto a mentire e a compiere gesti amorali, a volte con «crudeltà». Infatti, non commise crudeltà quando di mia madre, sua bella e giovanissima nipote, fece la sua amante?” (P. De Filippo, Una famiglia difficile, Marotta, Napoli 1977, p. 62).
Soffermandosi su mamma Luisa, poi, Peppino De Filippo scriveva: “Scarpetta fu per mia madre una corda messale al collo dal destino e pronta a strozzarla al minimo segno di fuga. Di temperamento calmo, quieto e di sentimenti semplici, mia madre fu facilissima preda di quell’uomo fatto davvero di pochi scrupoli” (cit., p. 50).
Sul suo personale confronto con il padre/zio durante l’infanzia, disse: “Non volevo nulla da lui (e nulla ebbi in seguito)” (cit., p. 27). Ricordò anche le volte in cui lo picchiava col bastone, “tenendomi legato mani e piedi alla spalliera del mio lettino” e quando, all’età di circa dieci anni, quell’uomo “egemonico e imperioso, impetuoso ed estroso” cominciò addirittura a toccargli una coscia in maniera decisamente equivoca fino ad avvicinarsi sempre più alla sua “parte vergognosa” (cit., pp. 69 – 71).
Pagine intense quelle scritte – con inevitabile coinvolgimento emotivo, ma senza perdere la lucidità del narratore che si appresta a raccontare fatti così distanti nel tempo – da Peppino De Filippo pochi anni prima di morire (scomparve a Roma il 27 gennaio del 1980): pagine che il film di Martone ci stimola a riscoprire e approfondire.
Il libro Una famiglia difficile mette in luce anche il rapporto contrastato tra Peppino e il fratello Eduardo, una conflittualità che portò a una spiacevole rottura tra i due nel 1944. Ma questa è un’altra storia e aspettiamo di vedere nelle sale il film di Sergio Rubini I fratelli De Filippo, presentato in anteprima in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma.
Lascia un commento