Con Suspiria, Argento recupera la struttura della fiaba, una forma narrativa disseminata di regole proprie in cui lasciar confluire ossessioni personali. Il film inizia con una sorta di trasfigurazione del classico disneyano Biancaneve e i sette nani, con la fuga di una ragazza nel bosco alla quale fanno coro i toni inquietanti e le urla di cui si compone l’originalissima colonna sonora dei Goblin. Agli occhi della protagonista Susy Benner (l’americana Jessica Harper pronta a fare il suo ingresso nell’accademia di danza di Friburgo), quella fuga nel bosco vista dal finestrino del taxi bagnato di una pioggia radente è l’antefatto di una scena di delirio che si produrrà una volta che la giovane avrà fatto ingresso nell’Accademia, dove l’attendono miss Tanner (Alida Valli) e madame Blanc (Joan Bennet), rispettivamente la maestra di danza e la vicedirettrice dell’istituto, incarnazione di una doppiezza sadica che ha il volto due grandi attrici nonché due bellissime dark ladies degli anni Quaranta (la generazione che ha dato al cinema classici sulla “doppiezza femminile” come La donna del ritratto di Fritz Lang o Il caso Paradine di Alfred Hitchcock).
Queste istitutrici con un sadico sorriso sul volto sono le ancelle del male, coloro che accudiscono a Friburgo una strega di origine greca, Helena Markos, soprannominata la “regina nera”, vera fondatrice nel 1895 dell’Accademia che ora ospita la giovane danzatrice destinata a essere sacrificata nel film. L’anno in cui l’Accademia fu fondata coincide tradizionalmente con la nascita del cinema, e Suspiria è un ritorno alle paure più archetipiche, l’immersione nella parte oscura della mente che viene a coincidere con la messa a punto di un linguaggio esso stesso scoperta, meraviglia, attrazione per l’imprevisto ma anche sonda espressiva di mondi sotterranei. Suspiria è quindi un omaggio al cinema, alle suggestioni del muto e alle atmosfere degli anni Quaranta, ma è con questo film che Argento porta al parossismo la sua ricerca formale nel segno del superamento della verosimiglianza. Il film più lisergico di Dario Argento è anche quello che vuole incutere paura creando suggestioni irrazionali; non più soltanto l’attesa prevista di un maniaco feroce, ma la rappresentazione del male quale istanza metafisica che sperimenta il suo efferato dominio in architetture labirintiche progettate per far perdere i riferimenti reali alle malcapitate vittime. L’elemento di irrazionalità all’interno della casa-labirinto addestrata al supplizio delle giovani vittime, scorre sulle memorie visive de Il gabinetto del dottor Caligari (1920) e sarà portato a sistema nel successivo Inferno, con cui Argento conduce al parossismo il delirante teatro della morte. Per il suo sesto lungometraggio, Argento si ispira a “Suspiria De Profundis” di Thomas de Quincey, dando avvio ad una fiaba che procede seguendo un percorso che incontra presto la dimensione dell’incubo. L’americana Susy Benner atterra all’aeroporto di Friburgo dove tra la pioggia battente cerca di raggiungere un’Accademia di danza. Qui trova davanti alla porta una ragazza che fugge terrorizzata pronunciando qualche parola incomprensibile. Nessuno apre la porta a Suzy che è costretta da andarsene; sul taxi vede correre la ragazza dell’Accademia tra la vegetazione del bosco. Quest’ultima si rifugia a casa di un’amica, e sarà uccisa in modo orribile assieme alla compagna. Alla luce del giorno Suzy si ripresenta all’Accademia, dove questa l’accoglie Miss Tanner, l’insegnante di danza, che la presenta alla vicedirettrice Madame Blanc. Il sorriso inquietante di Alida Valli sottolinea l’aspetto sinistro e i toni sadici di Miss Tanner, più kapò che insegnante. Suzy avverte subito disgusto per la donna e le sembra di non poter danzare come le altre: durante una lezione non riesce a tenere il passo, è affaticata e sviene. Le vengono somministrate delle cure ma Suzy si accorge che il dottor Verdegast in realtà le ha fatto ingerire dei sonniferi. Gli aspetti sinistri dell’Accademia palesano la loro portata malefica anche al di là delle mura di cemento: il pianista non vedente Daniel (Flavio Bucci) viene sbranato dal suo fido cane in una grande piazza buia che risuona come un luogo di funeste uccisioni. Sarah (Stefania Casini), l’amica e confidente di Suzy che assieme a lei ascolta il respiro rauco e inumano della “regina nera” Elena Marcos durante il sonno, viene trovata barbaramente sgozzata con un rasoio.
Grazie a un contatto con Fank Mandel (Udo Kier), un amico di Sarah, Suzy viene a conoscenza delle reali origini dell’Accademia, che sarebbe stata fondata nel 1895 da Elena Markos, strega apparentemente deceduta in un incidente nel 1905. Quando Susy ritorna all’Accademia, decide di seguire le insegnanti per vedere dove si radunano a fine giornata. Attraversando i corridoi dell’Accademia, l’ambientazione si fa via via più enigmatica, fino a quando, dinanzi a un’iris di colore blu raffigurato su una parete, Susy comprende il significato delle parole della ragazza che fuggiva dall’Accademia al momento del suo arrivo: “gira l’iris blu”. Le si apre davanti agli occhi un passaggio segreto al termine del quale assiste di nascosto a una cerimonia di stregoneria presieduta da Miss Tanner e Madame Blanc, dove la stessa Susy è la vittima designata. Susy scappa e trova maldestramente riparo nella stanza in cui Elena Markos riposa. In questa dimensione di incubo ad occhi aperti, Susy riesce a uccidere la strega e si precipita in fuga lungo i corridoi dell’Accademia che sembrano reagire alla morte di Elena Markos producendo una serie di esplosioni che i singulti musicali dei Goblin trasfigurano in fuga liberatoria. La ragazza si salva e lascia alle sue spalle l’Accademia avvolta dalle fiamme.
Il primo elemento incoraggiante è che alla fine della sua corsa, Susy ce la fa. Come in una favola che si rispetti, Suzy ha affrontato prove che hanno messo a repentaglio la sua sopravvivenza, superando ostacoli rappresentati dalle convenzioni (le medicine che sono in realtà sonniferi, ad esempio), sciogliendo e interpretando gli enigmi del linguaggio, per trovare infine la porta oltre la quale si accede a una conoscenza inquietante che nondimeno le permette di compiere un gesto definitivo e per lei salvifico. Inoltre, Susy ce la fa da sola, senza l’aiuto del confidente di turno o del principe azzurro, e nella lotta tra donne si legge lo scontro per la salvaguardia di un’identità non soggiogata dalle leggi della conservazione. Vince la giovane ragazza dal fisico esile ma con gli occhi grandi e luminosi, la prima ragazza del cinema di Argento a incarnare il modello di fanciulla in lotta con donne di una generazione precedente pronte a inculcarle modi di essere irreggimentati e innaturali (ma è anche l’archetipo della ragazza diafana e presto anoressica che cederà il podio a Asia Argento). Nella parte di Susy, Argento sceglie Jessica Harper, un volto conosciuto dagli amanti del cinema horror per via della sua partecipazione al film di Brian De Palma Il fantasma del palcoscenico (1974), a tal punto che, in Suspiria, l’arrivo della giovane americana nel “vecchio continente” sembra proprio una risposta europea al cinema americano di De Palma.
Lo sperimentalismo post-espressionista di Argento in risposta allo sperimentalismo de-costruzionista di De Palma, autore virtuoso e, come Argento, attento al cinema disturbante e alle evoluzioni del linguaggio anche nelle varie componenti tecnico-espressive. La risposta argentiana al film di De Palma, che riassume le sconcertanti aberrazioni di un patto con il diavolo, è nella ricerca quasi démodé di un cinema che si faccia artefice di un dialogo con il passato, con il male oscuro che cove dentro la nostra ombra. D’altronde, opere come Il fantasma del palcoscenico e Suspiria rispondono al desiderio dei rispettivi autori di rinverdire il genere, nel rispetto delle proprie inclinazioni estetiche. È però interessante che tra De Palma e Argento siano avvertibili delle convergenze autoriali, con De Palma attento al tema del doppio o a personaggi capaci di poteri paranormali (Carrie, Fury) e Argento che riporta nella vecchia Europa l’estetica barocca e l’oltranzismo tematico del New horror. Per l’epoca, tuttavia, un film come Il fantasma del palcoscenico rappresenta la conferma di un cineasta dotatissimo attratto da tematiche sappiano superare le strettoie del genere e che ritroviamo negli sconfinamenti del regista attuati in altri film.
Per Argento, invece, Suspiria è una dichiarazione di poetica pienamente calata nell’horror, di cui rappresenta anche l’estrema rivendicazione e una sorta di riappropriazione culturale. In Suspiria la componente pittorica è estremamente ricercata, ogni inquadratura obbedisce a un’esigenza cromatica particolare sin dalla prima sequenza in cui ci troviamo calati in un’atmosfera inquietante: le inquadrature del volto di Jerrica Harper sono immerse in una doppia luce bluastra e rossastra. I colori, rispettivamente, della notte e del sangue tingono un’immagine subito riconoscibile, di cui avremo ampie riprese in Inferno. Quasi un’immagine da fumetto terrorizzante proprio perché, come in un fumetto, può succedere di tutto. Ma i riferimenti, come per il successivo Inferno, sono anche all’espressionismo astratto di Mark Rotko. Di colore rosso antico è la facciata dell’Accademia di danza, un luogo che sembra un carcere o un centro per torture mentali. Più in generale, la suggestione pittorica si posta con un’attenzione luministica, con le ombre che assolvono la suprema funzione di spaventare. Il gioco di ombre è un omaggio al cinema che incuteva paura senza mostrare molto. Un cinema che spaventata senza provocare anche la nausea o il disgusto. Tende, finestre, drappi, tutto serve in Suspiria per delimitare lo spazio e suggerire la minaccia oltre quel labile confine. Dal buio di una finestra sul vuoto spuntano gli occhi di un gatto nero (l’archetipo di E. A. Poe) e poi un braccio dai tratti luciferini che afferra barbaramente Pat Hingle, la ragazza che Suzy incontra sulla porta al suo primo arrivo all’Accademia. Dietro il grande tendone che funziona da separé nel dormitorio improvvisato, l’ombra speventosa di Helena Marcos sovrasta le figure terrorizzate di Susy e Sarah che ascoltano l’inquietante respiro della regina nera. La sequenza della piscina inoltre, è un palese omaggio a Il bacio della pantera versione 1942. Come sarà per i colori di Greenaway negli anni Novanta, Argento ne accentua qui la componente espressiva, lavorando sui chiaroscuri, grazie alla collaborazione di Luciano Tovoli, il capo-operatore di Professione reporter (1975) che sperimenta la resa del colore con una elaborazione in fase di stampa della pellicola technicolor. Il risultato plastico così ottenuto ha una larga corrispondenza nell’originalissima colonna sonora, questa volte interamente scritta dai Goblin, in cui musica e suoni si fondono con il risultato di amplificare la resa espressiva e suggerire l’incombere di una presenta “altra”, ovvero demoniaca, dalle parti delle povere malcapitate.
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