Girato in Inghilterra con budget e tempi di lavorazione più ampi rispetto ai precedenti film di Roger Corman del ciclo dedicato a Edgar Allan Poe prodotto dalla American International Pictures (ricordiamo I vivi e i morti, 1960, Il pozzo e il pendolo, 1961, Sepolto vivo, 1962, I racconti del terrore, 1962, I maghi del terrore, 1963), La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1964) è un horror di ottima fattura, immerso in un Medioevo oscuro e visionario in bilico tra realtà e sogno, dove l’eterna lotta tra Bene e Male si colloca in una dimensione vagamente bergmaniana che ricorda per certi aspetti Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957).
Ispirata liberamente all’omonimo racconto del grande scrittore statunitense, pubblicato per la prima volta nel 1842, la sceneggiatura (firmata da Charles Beaumont e R. Wright Campbell) presenta alcune difformità rispetto al soggetto originale e si riallaccia in parte anche a un altro racconto di Poe del 1849, Hop-Frog. Il punto di forza del film, che all’epoca fu accolto entusiasticamente dalla critica che lo ritenne uno dei migliori titoli dell’intero ciclo di Corman, è senza dubbio la splendida fotografia dell’inglese Nicholas Roeg, con soluzioni cromatiche davvero suggestive, fatte di “colori vivi e smaglianti” (R. Venturelli, Storia del cinema horror in cento film, Le Mani, Recco 1994, p. 91), che ne accentuano la dimensione onirica: si veda ad esempio il pavimento del grande salone, al castello, con figure geometriche nette fotografate in verde, giallo e nero.
In una remota regione, nel Basso Medioevo (presumibilmente tra Tre e Quattrocento), un misterioso personaggio incappucciato e con il volto nascosto annuncia a una vecchia popolana che presto giungerà la liberazione dalla tirannia del principe Prospero (Vincent Price), il crudele e sadico seguace di Satana che domina quelle terre. L’ignoto messaggero è in realtà la Morte Rossa, arrivata al villaggio per seminare la pestilenza e che, presentandosi sotto forma umana, richiama alla memoria la celebre personificazione della Morte nel capolavoro di Ingmar Bergman. Mentre fuori imperversa il morbo, dopo aver ordinato di dare alle fiamme l’intero villaggio Prospero (che se nel racconto di Poe era un giovanotto, qui ha le fattezze di mezz’età del gigionesco Price, all’epoca cinquantatreenne) si rinchiude nel suo castello con un dissoluto manipolo di nobili e cortigiani per sfuggire al contagio, dedicandosi a orge e sollazzi d’ogni tipo. Con sé ha portato anche tre prigionieri: la contadina Francesca (Jane Asher), suo padre Ludovico (Nigel Green) e il suo sposo Gino (David Weston). I due uomini sono rei di aver mancato di rispetto al principe, dopo che questi, arrivato al villaggio nella sua sontuosa carrozza, si era preso gioco dei sudditi paragonandoli alle bestie.
“Guarda! Ma guardati attorno! Come puoi credere nella bontà del genere umano? Fame, pestilenze, guerre, malattie e morte. L’orrore governa il mondo. Se veramente è mai esistito un dio di vita e di amore, egli è morto da tempo. Qualcuno, o qualcosa, governa in sua vece”. Con queste parole il demoniaco Prospero, di fronte alla purezza e all’ostinata fede cristiana di Francesca, cerca di dimostrare alla ragazza la morte di Dio e la sua sostituzione con il regno di Satana. Obbligandola a togliere il rosario che porta al collo, la provoca e, per mettere ulteriormente a dura prova la sua fede, le racconta che circa un secolo addietro, nelle stesse segrete in cui sono rinchiusi Gino e Ludovico, un suo antenato monaco a capo di un tribunale della Santa Inquisizione aveva mandato alla tortura “seicento uomini, donne e bambini per salvare le loro anime, e questo in nome dell’Amore!”.
Ma la bontà d’animo di Francesca, unico raggio di luce in quel regno di tenebre e perdizione, non viene scalfita. Il mondo del principe Prospero e dei suoi adepti, invece, è uno di quegli oscuri microcosmi del cinema di Roger Corman mutuati dal genio di Edgar Allan Poe che, chiusi in se stessi, sono irreversibilmente destinati a un epilogo di distruzione. Il dilagare della Morte Rossa, infatti, non solo libera la povera gente del villaggio sottraendola per sempre a una vita di stenti e di soprusi, ma fa anche giustizia punendo i potenti, che in nome di Satana si erano illusi di potersi sottrarre al contagio. “La morte non ha volto finché non diventa la tua morte”. E così, quando anche per Prospero giunge l’ora fatale, il volto nascosto della Morte Rossa, che avanza solennemente in mezzo al delirio del ballo in maschera organizzato al castello facendo strage dei presenti (una sequenza di grande effetto), diventa lo stesso del principe.
“E allora si seppe che la Morte Rossa era là, e tutti la riconobbero. Era arrivata come un ladro nella notte. Uno dopo l’altro caddero i festanti nelle sale ormai invase di sangue; morivano così, nella disperazione. E quando l’ultimo morì, anche l’orologio d’ebano tacque, e le fiamme dei tripodi si spensero. E il Buio, il Disfacimento e la Morte Rossa dominarono indisturbati su tutto” (E. A. Poe, La mascherata della Morte Rossa).
Insieme alla Morte Rossa, altre misteriose figure di colori diversi (la Piaga Bianca, Gialla, Dorata, Blu, Viola) fanno la conta delle rispettive vittime. Solo in sei sopravvivono alla peste: Francesca, il suo sposo Gino, una bambina, un vecchio e una deliziosa coppia di freaks che sono riusciti a fuggire dal castello, la ballerina – giocattolo Esmeralda e il nano di corte Rospo.
L’attrice inglese Hazel Court interpreta il ruolo di Juliana, la sposa del principe Prospero, anche lei dedita al satanismo.
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