Continuiamo a pubblicare le recensioni e i saggi vincitori del Premio Adelio Ferrero 2021.
Presentiamo il secondo classificato nella sezione “saggi”.
LA TRILOGIA SEQUEL DI STAR WARS
di Alfredo Marasti
Ritorno dell’Imperatore, necrosi della nostalgia
Solo a distanza di tempo sarà forse possibile apprezzare la Trilogia Sequel di Star Wars (2015 – 2019), ideata da J. J. Abrams e Rian Johnson, col medesimo distacco con cui ci divertiamo a rivedere la Trilogia Originale (’77 – ’83) e la Prequel (’99 – 2005) ideate da George Lucas; anche allora, tuttavia, ci sembrerà di assistere non a un trittico unitario, ma a un confuso mosaico le cui tessere non si incastrano del tutto. Questo saggio tenta di riunire alcune tracce rivelatrici, seppure implicite, del diverso approccio dei due registi alla saga; i non detti che traslano i personaggi fuori dal racconto, consentendo accostamenti simbolici, metacinematografici e, perché no, politici. Se il colossale impianto produttivo può ben rappresentare l’Impero, certo Abrams ne è il Grand Moff, pronto a distruggere chiunque non si conformi all’ideologia dominante, mentre Johnson tenta l’eroica Ribellione contro una nostalgia colonizzatrice e inarrestabile. Il risveglio della Forza (2015, Abrams), pur assecondandola, crea i presupposti per una possibile fionda; Gli ultimi Jedi (2017, Johnson) riesce a scagliare il sasso, mentre con L’ascesa di Skywalker (2019, ancora Abrams) il sasso rimbalza in faccia al tiratore. Se Johnson aveva tentato, con il discusso Luke di Ep. VIII, di superare le tradizionali dicotomie del fantasy (come la chiara contrapposizione tra buoni e cattivi), Abrams deve ricorrere al ritorno, forzatissimo, dell’Imperatore, villain convenzionale ma necessario a blandire il pubblico nostalgico.
Il risveglio della Forza: un regista tredicenne
La guerra che sembrava finita, nel giro di un trentennio è già ricominciata. Se le carcasse dei vecchi Star Destroyer imperiali giacciono scenograficamente sotto la sabbia, gli incrociatori del tetro Primo Ordine ne hanno facilmente preso il posto. In una delle sequenze più datate della Trilogia Originale la principessa Leia assisteva impotente alla scomparsa del pianeta Alderaan, distrutto dalla Morte Nera; la quasi esordiente Carrie Fisher appariva disorientata più che disperata (sul set del primo Guerre stellari non era certo la sola). Con Abrams non va molto meglio: la Base Starkiller fa esplodere una Nuova Repubblica di cui il film non racconta nulla, la cui scomparsa ci lascia di conseguenza del tutto indifferenti. Evidentemente la democrazia non è interessante quanto l’Impero: gli autori così accontentano quella (larga) parte di pubblico che era rimasta insofferente alle tinte peplum della Trilogia Prequel. Il loro intento è scopertamente quello di tornare alla Trilogia Originale, ricalcandone anche la modestia dell’intreccio, con più effetti speciali. L’ansia di rivedere il già visto domina anche in scenografia: mentre Ep. VIII oserà mostrandoci la città-casinò Canto Bight e il pianeta minerario Crait, dal suolo rosso sangue nascosto sotto un velo di sale bianchissimo – così come Lucas aveva a suo tempo osato con la fantasiosa Cloud City su Bespin, o con il lussureggiante Palazzo Reale di Naboo, ambientato a Caserta – il setting de Il risveglio della Forza sperimenta unicamente la propria pigrizia, proponendo una triade di scenari (desertico, boscoso, innevato) già sfruttati precedentemente. La causa principale dell’overdose di nostalgia risiede nella scelta di affidare Ep. VII a un regista celebre quanto sopravvalutato.
Per avere un’idea di quanto l’abilità tecnica di J. J. Abrams conviva, da sempre, con una totale mancanza di originalità in sede di sceneggiatura (condivisa con Lindelof e Kurtzman, suoi principali collaboratori dai tempi di Lost e Fringe), basta confrontare i passaggi cruciali di Star Trek II – L’ira di Khan (Meyer, ’82), con quella di Star Trek Into Darkness del 2013, seconda parte del reboot di Abrams. Nel film più anziano, per salvare la nave Enterprise minacciata dal perfido Khan, l’eroico Spock si sacrificava suscitando la disperazione dell’amico Kirk, ma riuscendo a trasferire il suo spirito nella mente del dottor McCoy; nell’opera derivata è invece Kirk a sacrificarsi, suscitando la disperazione di Spock, sempre contro Khan, venendo infine ancora salvato da McCoy. Anche la sceneggiatura di Ep. VII, scritta da Abrams con Lawrence Kasdan come consulente, è sovrapponibile a quella di Ep. IV (1977): i pianeti desertici (Jakku/Tatooine) da dove il viaggio dell’eroe (Rey/Luke) ha inizio, la distruzione di pianeti tramite una “super arma” (la Morte Nera/la Base Starkiller), la morte a tre quarti di trama del mentore (Obi-Wan Kenobi/Han Solo), il misterioso Snoke che sembra una brutta copia dell’Imperatore. Ma è proprio nel “già visto” che, paradossalmente, Ep. VII trova una chiave per emanciparsi.
La novità consiste nel trasporre la dimensione nostalgica sul piano diegetico, rendendo interessante ciò che di per sé sarebbe stato solo infantile: non è il regista l’unico a tornare bambino facendo rivolare il Millennium Falcon, ma gli stessi protagonisti giocano a emulare i rispettivi paladini emersi dal passato. Cos’è infatti il costume di Kylo Ren/Ben Solo (Adam Driver), se non un cosplay chiaramente ispirato al ben più celebre Lord Vader, di cui riprende persino la voce metallica, senza che questa abbia alcuna motivazione – diversamente dall’originale – se non quella di farlo apparire più minaccioso? Lo stesso Ren è in effetti un nostalgico dell’Impero, cioè un neofascista, convinto che il nonno avesse fatto anche cose buone. Le origini di Rey (Daisy Ridley) sono avvolte nel mistero; però si sa che è cresciuta fantasticando sui cavalieri Jedi, figure per lei leggendarie («Luke Skywalker? Credevo fosse un mito»). Nella casupola in cui accumula rottami e pezzi di ricambio trova posto la bambola di un pilota dell’Alleanza Ribelle, e in una sequenza successiva sarà lei stessa a indossare il casco di uno di quei piloti, rinvenuto tra le macerie, immaginandosi protagonista di quelle stesse avventure. Così il racconto allude a quello stesso scarto generazionale che ha pesato sulla ricezione del film: i nuovi eroi sono all’altezza dei miti del passato? Al centro sono gli stessi fan, gli stessi nerd che questa storia l’avevano attesa per anni, inventandola con spade, modellini e action figures simili ai feticci che hanno segnato l’infanzia di Rey e Kylo. La dimensione metanarrativa, insieme alle sequenze più esteticamente appaganti – come il duello notturno tra Rey e Kylo nella foresta innevata – compensa i MacGuffin e i buchi di trama. L’intenso cliffhanger finale, con lo sguardo indecifrabile di Luke rivolto a Rey che gli porge la spada (ma anche al pubblico), prelude alla durezza con cui Johnson ribalterà la domanda posta da Abrams: i miti del passato sono all’altezza dei nuovi eroi?
Gli ultimi Jedi: il Luke Amleto
L’ultimo gesto che Luke Skywalker compie da Jedi, in Ep. VI, è scagliare via la spada rifiutando l’offerta dell’Imperatore (uccidere suo padre, Vader, e prenderne il posto come Sith); il primo che gli vediamo compiere in Ep. VIII è scagliare via la spada con fare sprezzante nei confronti di Rey, che vuole diventare sua apprendista. Tra i due momenti c’è una palese simmetria, che tuttavia può risultare sconcertante; il primo a non digerirla è proprio Mark Hamill, interprete di Luke e volto tra i più iconici della saga. In varie dichiarazioni pubbliche si dissocia dalla visione del regista:
HAMILL: […] a Rian l’ho detto […]. Gli ho detto che sono fondamentalmente in disaccordo col suo concetto di questo personaggio e col modo in cui lo usa. Tuttavia, detto questo, farò tutto il possibile per realizzare la sua visione, perché appunto, il personaggio non è mio e non posso decidere […]. Il mio personaggio è sempre stato un simbolo di speranza e ottimismo. E ora, eccomi qui, molto pessimista e disilluso…
In seguito Hamill ritratterà, definendo Ep. VIII un film «tra i più grandi di tutti i tempi»; nel frattempo, però, i fan più delusi l’avevano già preso a pretesto per stroncare il film e chiederne, nel delirio social, il ritiro. Nel backstage Il regista e i Jedi (Wonke, 2018) la storia di Luke acquisisce un’intensa dimensione metacinematografica. La speranza, manifestata da Hamill, di riunire il trio originale – Hamill, Ford, Fisher – viene infranta, in primo luogo, dalle scelte narrative: Han Solo muore in Ep. VII, senza poter reincontrare Luke. In secondo luogo da una tragica fatalità: Carrie Fisher muore poco dopo la fine delle riprese. Anche per questo è commovente vedere, nel documentario, l’ingrigito Hamill aggirarsi sul set, mentre sforna freddure autoironiche: «Vi ricordate di me?», chiede alla troupe, «sono indirettamente collegato a questa produzione». Il settantenne burattinaio Frank Oz, richiamato a interpretare Yoda, non gli pare diverso – barba bianca a parte – da quando l’aveva conosciuto nel ’79; mentre lui, all’epoca un ragazzino, non può non percepirsi invecchiato:
JOHNSON: Mark, molto comprensibilmente, non era entusiasta di alcune delle scelte presenti nella sceneggiatura. Soprattutto l’atteggiamento di Luke, il fatto che non è il Luke Skywalker che conoscevamo allora […] il fatto che muoia alla fine […].
Per comprendere le scelte di Johnson dobbiamo tornare alla Trilogia Prequel: pur essendo collocata narrativamente per prima, di fatto aveva seguito la Trilogia Originale e ne aveva reso più complessa la mitologia, specie riguardo alla religione Jedi e al concetto di “equilibrio nella Forza”. Se Abrams aveva ignorato i prequel, Johnson sceglie invece di farci i conti, traendone conseguenze lineari.
Solo tramite i prequel apprendiamo che i Jedi, ai tempi della Repubblica, erano convinti – in base ai testi sacri della loro religione – del futuro avvento di un Prescelto, destinato a riportare equilibrio nella Forza. In cosa consista tale equilibrio non è chiaro, ma i buoni danno per scontato che coincida, comodamente, con la distruzione dei cattivi:
OBI-WAN: Con tutto il rispetto, Maestro Windu, non è lui [Anakin] il Prescelto? Colui che distruggerà i Sith e porterà equilibrio nella Forza?
MACE WINDU: Questo dice la profezia.
YODA: Profezia che mal interpretata può essere stata.
Paradossalmente è Yoda, il più anziano dell’Ordine, a palesare il proprio scetticismo, comprendendo che affidarsi ciecamente ai testi millenari potrebbe essere incauto. Anni dopo, in Ep. VIII, si spingerà addirittura al gesto iconoclasta e provocatorio di bruciare il Tempio Jedi evocando un fulmine, di fronte a un Luke mai così disorientato, a cui si rivolge così: «Tempo è che tu guardi oltre una pila di vecchi libri!». Obi-Wan rappresenta invece l’eterno idealista, il conservatore della tradizione; donde il suo pensare secondo modelli convergenti, la sua reazione disperata di fronte al declino di Anakin e all’eventualità che la profezia non si realizzi, per lui incomprensibile, al punto che incolpa di tutto se stesso: «Ho fallito con te, Anakin […]. Tu eri il Prescelto! Era scritto che distruggessi i Sith, non che ti unissi a loro!». Dopo un lungo esilio, lo ritroviamo su Tatooine a iniziare il giovane Luke, la nuova speranza. L’anziano mentore comunica a Luke i precetti di un ordine estinto, di cui il ragazzo sa poco o nulla, senza la minima intenzione di attualizzarli; al contrario, gli viene naturale ribadire gli aspetti più convenzionali e dogmatici della religione risalente ai «tempi più civilizzati». Il presupposto fondamentale, senza il quale cadrebbe l’idea stessa di un Ordine Jedi, è che solo pochi eletti possano trarre dalla Forza poteri e abilità: «La Forza è quella che dà al Jedi la possanza, è un campo energetico creato da tutte le cose viventi». Tanto gli hanno insegnato e tanto Obi-Wan trasmette al suo allievo (del resto Ep. IV è il primo film e la spiegazione di cosa sia la Forza, come tutto il resto, è ancora embrionale). Sono le stesse, generiche certezze con cui Rey si presenta un giorno al cospetto di Luke:
REY: Maestro Skywalker, devi far rinascere i Jedi, perché Kylo Ren è potente nel lato oscuro della Forza. Senza i Jedi non abbiamo speranze contro di lui.
LUKE: Che cosa sai tu della Forza?
REY: È un potere che i Jedi hanno, con cui controllano le persone e… fanno volare cose.
LUKE: Notevole. Ogni parola che hai detto è sbagliata.
In Ep. V, Luke aveva appreso che proprio suo padre Anakin si era volto al male; ma in Ep. VI riusciva a riportarlo al bene e il mistero della profezia sembrava svelato (era Luke il Prescelto, non Anakin). La doccia fredda arriva quando Ben Solo, nipote di Anakin, passa ancora al Lato Oscuro (talvolta la malattia, banalmente, salta una generazione, anche per ragioni commerciali). Finalmente Luke giunge alla presa di coscienza che prima aveva solo intuito: arriva cioè a mettere in discussione non solo gli errori dei singoli, ma anche il contesto, il sistema di valori che li aveva determinati:
LUKE: Ora che si sono estinti, i Jedi vengono romanzati, deificati; ma se togli il mito e consideri le azioni, il retaggio dei Jedi è un disastro. Ipocrisia, superbia…
REY: Questo non è vero!
LUKE: All’apice del potere hanno permesso a Darth Sidious di farsi strada, creare l’Impero e sterminarli! […]
Ep. VIII ci propone finalmente, con ritardo quarantennale, una spiegazione complessa di cosa sia la Forza e di come funzioni; il senso del suo agire, come spiega Luke a Rey, non risiede in un’istituzione che pretende di praticare esclusivamente il bene, come i Jedi della Repubblica, ma proprio nell’equilibrio tra luce e buio, rappresentato dal mosaico circolare, del tutto simile al simbolo cinese di Yin e Yang, al centro della sala più ampia del Tempio Jedi su Anch-To:
LUKE: Respira. Espandi le tue sensazioni. Che cosa vedi?
REY: L’isola. Vita… morte e putrefazione… che nutre nuove vite. Calore. Freddo. Pace. Violenza.
LUKE: E fra tutto questo?
REY: Equilibrio. Un’energia… una forza.
LUKE: E dentro di te?
REY: Dentro di me… la stessa forza.
LUKE: E questa è la lezione. Quella forza non è prerogativa dei Jedi! Dire che “se il Jedi muore la Luce muore” è pura vanità, lo capisci questo?
La Forza, insomma, è laica: “riportare equilibrio” non equivale a riportare il bene. Una simile “democratizzazione” porta a superare le categorie convenzionali; affermando che «è tempo che i Jedi scompaiano», Luke intende dire che l’Ordine deve scomparire così come lo conoscevamo, non dev’essere cioè rifondato con gli stessi, inattuali presupposti di un tempo (come ha tentato di fare lui stesso, fallendo).
Se dunque Kylo Ren – mantenendo un’interpretazione che ricerca assonanze con l’attualità – ci ricorda un militante invasato di Alba Dorata o CasaPound, Luke è piuttosto un sessantottino che ha perso la sua utopia, mentre i Jedi sono ciò che la chiesa cattolica rappresenta per il cristianesimo: un confuso miscuglio di buone intenzioni, dogmi secolari (il Prescelto), eroismo, folklore e sessualità repressa. Rimosse le certezze, Luke sa perfettamente che cedere all’eroismo potrebbe essere la scelta migliore, oppure no, a seconda del contesto; sia lui che suo padre hanno agito in tal senso, con esiti diversi. Sommerso dai dubbi e al contempo investito di enormi responsabilità, piomba nell’inazione, non diversamente da un Amleto (anche se nei film è Kylo a monologare con la maschera di Vader, simile a un teschio). Per giunta è Luke stesso il responsabile della ribellione di Kylo; non potendolo credibilmente più convertire, non ha scelta se non affrontarlo in un duello mortale. Torniamo così al gesto della spada: scagliarla via significa, per Luke, restare coerente con la scelta di Ep. VI, quella di rifiutare l’offensiva omicida, per non cedere al Lato Oscuro. Già nella Trilogia Originale, prima che l’aura “senza macchia” del personaggio si sedimentasse, Luke si scontrava, in una visione esperita durante l’addestramento ricevuto da Yoda, con l’ossessione freudiana di sostituirsi al padre, uccidendolo (vedeva infatti se stesso sotto la maschera di Vader). Un’inquadratura di Ep. VI lo ritrae dal basso, mentre osserva la propria mano guantata subito dopo aver sconfitto Vader in duello – la destra, quella destinata a brandire la spada e che Vader gli aveva mozzato – e comprende, sconvolto, che l’omicidio lo condurrebbe a ripetere il destino di Anakin.
Johnson la replica, specchiandola, per descrivere il momento in cui quello stesso incubo rischia di realizzarsi: fuorviato da un tremendo presagio Luke immagina, per un brevissimo quanto disastroso istante, di colpire a morte Kylo addormentato; è solo un pensiero, ma il nipote, svegliatosi all’improvviso, comprensibilmente gli si ribella.
Tormentato, ma coerente con sé stesso e imbattuto, Luke diventa così il personaggio centrale e pacifista di un’ennealogia costruita sulle simmetrie; responsabile tanto della salvezza di Vader quanto della perdizione di Kylo, riunisce le premesse dei prequel alle conseguenze dei sequel. Ognuno dei restanti archi narrativi si svolge all’insegna del sovvertimento delle aspettative. Rose Tico (Kelly Marie Tran), inizialmente determinata a emulare la sorella kamikaze, metterà infine da parte il proprio idealismo; il personaggio dell’hacker DJ (Benicio del Toro), con cui gli sceneggiatori intendono palesemente rievocare Han Solo, presentandolo come una canaglia inaffidabile e opportunista, alla fine tale si dimostra, mentre il pubblico si sarebbe aspettato il cuore d’oro e la giravolta finale, come per Han. La mossa più spiazzante è certamente quella di far uccidere da Kylo Ren il Leader Supremo Snoke, delle cui origini non si è saputo finora niente di niente; è possibile che Johnson, eliminandolo, intendesse semplicemente spianare la strada ad un Kylo non più titubante, bensì ancor più pericoloso, come nuovo dittatore. Ciò avrebbe allontanato la trama dall’esito più banale: Rey e Kylo che, innamorati, uniscono le forze contro il male (analogamente a Il ritorno dello Jedi). Johnson non immagina che Abrams, in Ep. IX, farà proprio questo; non potendo però più contare su Snoke, resusciterà l’Imperatore.
Forte della sua maggiore libertà, come episodio intermedio e non conclusivo, parabola sull’idealismo e sul fallimento, Gli ultimi Jedi lascia comunque tutti i presupposti per ricucire anche le ferite più audaci; ma Johnson sconterà comunque il proprio laicismo, per via di quella parte di pubblico che non intende affatto accettare di «togliere il mito e considerare le azioni».
L’ascesa di Skywalker: il bene inevitabile
Qual è, allora, il problema che ha pesato sui sequel? Non certo che Disney e Lucasfilm abbiano lasciato troppa libertà ai registi, come qualcuno ha sciaguratamente scritto, bensì il contrario: in seguito alle polemiche suscitate da Ep. VIII si è preferito fare marcia indietro e imprimere al terzo film una direzione preordinata, volendo accontentare i fan più nostalgici (che hanno con la saga lo stesso rapporto feticistico che Kylo ha con l’elmetto imitante Vader; non a caso Johnson glielo fa distruggere, mentre Abrams glielo fa ricostruire da capo). Ne risentono soprattutto la caratterizzazione dei personaggi e lo spessore del racconto; se Johnson aveva osato conferire loro un tono più adulto, Abrams e Terrio li riportano a un livello prescolare, sforzandosi di blandire i fedeli non sul piano razionale, ma su quello emotivo, come in un rituale religioso. L’esempio più evidente di tale regressione è la scena in cui Rey decide di esiliarsi su Ahch-To e getta la lightsaber alle fiamme, da cui però la mano fantasma di Luke la riafferra prontamente:
LUKE: L’arma di un Jedi merita più rispetto.
REY: Maestro Skywalker!
LUKE: Che cosa stai facendo?
REY: Mi sono vista sul trono oscuro. Non voglio che accada. Non lascerò mai questo posto, faccio quello che hai fatto tu!
LUKE: Io sbagliavo. Era la paura a tenermi qui.
L’intera situazione è una foglia di fico atta a coprire una precisa vergogna genitale: la scena di Ep. VIII in cui lo stesso Luke gettava via la sua spada, mal tollerata dai fondamentalisti («L’arma di un Jedi merita più rispetto»). La seconda parte della battuta rincara la dose: «Era la paura a tenermi qui». L’isolamento su Ahch-To non era stato dettato dalla vile codardia, ma dal voler rinunciare al potere anziché rischiare di abusarne (e in ogni caso non in nome di un generico «Ho sbagliato»); scelta complessa e sofferta, che Abrams resetta, facendo pronunciare a Hamill un’abiura degna di Galileo.
Dove l’inventiva registica tiene ancora è nel proseguire con l’uso esibito e provocatorio della nostalgia, sviluppando le intuizioni meta-cinematografiche già presenti in Ep. VII. L’idea di mostrare le carcasse insabbiate degli Star Destroyer viene ripresa con il relitto sommerso della Morte Nera (relitto della nostalgia stessa e al contempo suo trionfo: dopo la seconda Death Star di Ep. VI e la molto somigliante Base Starkiller di Ep. VII, ancora una volta ci si deve tornare, pur se fra le sue macerie). Snoke, che subito ci era sembrato una brutta copia di Sidious, era letteralmente una copia creata da Sidious tramite la manipolazione genetica; un fantoccio senziente ma privo di una vera caratterizzazione. La maschera bruciata di Vader, reliquia per Kylo Ren quanto per il pubblico generalista, era stata inquadrata con insistenza in Ep. VII, come dovesse celare un segreto; qui, durante un duello, viene urtata come nulla fosse e cade a terra fracassandosi, nessuno ne parla più. Ed è logico: il redento Anakin, plausibilmente, non è mai realmente entrato in contatto con il nipote che ne venera soltanto il malvagio alter ego, da tempo scomparso. Come Kylo, gli spettatori si erano illusi, attraverso quel vuoto fossile, di poter resuscitare il celebre villain verso cui il nipote, gli autori e la saga tutta nutrono un inestinguibile complesso d’inferiorità. Ma è il “redivivo” Imperatore il medium più esplicito di una nostalgia tanto potente da non lasciare al nuovo il minimo spazio. Il passato di cui ci siamo nutriti a lungo ora si materializza: è un cadavere attaccato ai fili, putrescente e incapace di esprimersi senza realizzare calchi esatti delle battute già udite nei film precedenti («Snoke ti ha addestrato bene», «Il Lato Oscuro è la via per acquistare molte capacità, da alcuni ritenute non naturali»). Assorbendo l’energia di Rey e Kylo, Palpatine si rigenera definitivamente; è lo stesso incubo che nella realtà, più o meno razionalmente, temiamo spesso possa avverarsi, e cioè che i peggiori totalitarismi, a forza di rievocarli, possano un giorno ripetersi, con conseguenze ben peggiori della nostalgia. Non manca neppure l’allusione al reato di apologia del fascismo, ridotto a pastoia burocratica: un’antica iscrizione in lingua runica Sith, fondamentale per la vittoria dei buoni, non può essere svelata dal droide C-3PO, la cui programmazione lo rende capace di tradurla ma non di ripeterla ad alta voce, poiché una norma passata al Senato della Vecchia Repubblica (i «padri costituenti») vieta di pronunciare traduzioni dal Sith!
Il ritorno dell’Imperatore rappresenta anche il punto più debole di una sceneggiatura penalizzata dalla sciatteria con cui è stata scritta. Come ha aggirato la morte? Qual è il suo piano? Gli autori abdicano, dicendo tutto e il contrario di tutto. Appurato che Sidious «non ha mai voluto Rey morta» e che era lui stesso a manovrare Snoke, per quale motivo quest’ultimo, nel finale di Ep. VIII, appariva del tutto determinato a far uccidere la nipote? E già lo sforzo teorico appare eccessivo, considerando le dichiarazioni rilasciate da Daisy Ridley in un’intervista che segue di poche settimane l’uscita del film:
All’inizio stavano prendendo in considerazione una qualche connessione con Obi-Wan. C’erano versioni diverse, ma alla fine sono arrivati alla conclusione che lei non era nessuno. Poi però si arriva a Ep. IX, J.J. [Abrams] mi riassume il film ed era tipo ‘Oh sì, nonno Palpatine’, ed io ho detto ‘Fantastico!’. Due settimane dopo però ha detto ‘No, non ne siamo più sicuri’. Continuavano via via a cambiare idea. Praticamente stavo girando e non ero sicura di quale sarebbe stata la mia identità.
Ridley conferma che la backstory di Rey è stata appiccicata in gran fretta e in barba alle logiche interne al racconto. Ma sempre preoccupandosi della nostalgia: gli autori dovevano rivelarci che è la nipote di Palpatine (non si capisce nemmeno se per vie genetiche o biologiche), legame che nel finale l’eroina sceglie ovviamente di rinnegare, adottando però in sostituzione il cognome Skywalker; così il passato torna a schiacciare i nuovi protagonisti, buoni o cattivi che siano, sotto il peso del confronto con gli originali (e con i loro cognomi). Fedele al proprio infantilismo fallocentrico, qui Abrams esplicita più che mai il suo approccio al cinema, stolidamente basato sulla quantità e sulla moltiplicazione: scrivere per lui significa aggiungere un maggior tasso di tutto. Se in Ep. VII la Base Starkiller appariva in grado di distruggere più pianeti alla volta, ora abbiamo una flotta immane di incrociatori, la cui estensione supera le capacità dello schermo, ognuno dei quali possiede un cannone capace di distruggere altrettanti mondi; altrettanto sterminata è la flotta della Resistenza, la cui comparsa nella battaglia finale ricorda La carica dei cento e uno. Vengono moltiplicati i MacGuffin, con effetto videogame: gli eroi, seguendo una traccia, si recano su un pianeta, dove trovano un pugnale, che nasconde un’iscrizione, che una volta tradotta porta a un altro pianeta, che nasconde un Puntatore Sith, che permette di raggiungere il pianeta dove è nascosto l’Imperatore. Viene aggiunta anche una quantità di nuovi personaggi: Beaumont Kin (Dominic Monaghan), Zorii Bliss, Jannah, il generale Pryde, il droide D-O e l’alieno manutentore Babu Frik, oltre a Lando Carlissian (Billy Dee Williams), l’unico non ancora riesumato dalla vecchia guardia. Il risultato è l’ovvia mancanza di spazio per qualunque caratterizzazione dei personaggi: non solo quelli nuovi, ma anche quelli ormai canonici, come Poe o Rose, ridotti a comparse.
Kylo mantiene il suo fascino, grazie soprattutto all’interpretazione di Adam Driver. Più volte battuto da Rey, umiliato da tutti i mentori possibili, chiari e scuri, veri e finti (Snoke, Luke, Palpatine), al povero Kylo non restano molte scelte: redimersi, oppure buttarsi a mare insieme alla Morte Nera. Il suo percorso dal Lato Oscuro al Lato Chiaro può essere sovrapposto a quello, simmetrico, compiuto dal nonno Anakin nella Trilogia Prequel (torna la passione di Abrams nel copiare soft, semplicemente per inversione). Nel corso di nove film e di quarant’anni, l’umana contraddizione alla base della saga (in linea con i concetti cristiani di peccato originale e redenzione, ma anche con l’Oriente e il New Age) è rimasta identica: cedere alle emozioni (all’amore per i propri cari, al terrore di perderli) ha provocato la caduta di Anakin, ma determina la sua stessa redenzione, così come l’ascesa di Ben Solo; in mezzo a loro Luke, che tra epico ascetismo e iconoclastia riesce a mantenersi equidistante (in equilibrio!), ergendosi come ultimo Jedi nel senso tradizionale del termine. L’arco evolutivo di Rey, paladina senza macchia, rimane invece piatto e convenzionale; la rivelazione genealogica di Ep. IX, oltre che inutile, è debolissima di per sé, essendo Palpatine l’unico nonno a cui qualunque nipote avrebbe terrore di avvicinarsi. Nessuno può credere per un solo istante che l’Imperatore possa plagiarla invocando l’anagrafe, come effettivamente la pessima scrittura gli fa fare: «Il tuo maestro, Luke Skywalker, fu salvato da suo padre. L’unica famiglia che tu hai qui sono io». Ciononostante, l’eroina è decisa ad affrontarlo; ciò che fa seriamente vacillare la determinazione di Rey è apprendere che l’Imperatore desidera essere ucciso. È lo stesso cul-de-sac in cui si era trovato Luke a suo tempo, sembra impossibile liberarsi di Sidious senza fare il suo gioco:
PALPATINE: […] Il tuo odio, la tua collera…tu vuoi uccidermi, ed è ciò che io voglio! Uccidimi e il mio spirito si trasferirà dentro te, come tutti i Sith che vivono in me!
Ancora una volta il confine fra bene e male si dimostra labile, relativo: gli sceneggiatori provvedono inserendo l’ennesima battuta didascalica per ribadire al pubblico la distinzione fra buoni e cattivi («Il tuo unico scopo è condurmi a odiare, ma io non odierò neppure te!», dichiara Rey, prendendo posizione contro l’hate speech). Di fatto, subito dopo, lo abbatte con visibile soddisfazione, ma c’è il trucco: un rituale chiaro tramite il quale Rey percepisce le voci di tutti i Jedi mai esistiti. Canalizzandone la forza, respinge contro Sidious i suoi stessi fulmini: una legittima difesa, coerente con il codice dei Jedi (e dei pistoleri buoni nel cinema americano classico). Rey muore per lo sforzo ma giunge in soccorso, telefonatissimo, il sacrificio di Ben, che a sua volta la resuscita trasmettendole la propria energia, per poi spirare. Ciò che conta è che l’Imperatore viene definitivamente spazzato via, e insieme a lui deflagrano i suoi seguaci e l’intero impianto di clonazione; il ciclo di eterni ritorni sembra proprio concluso…
…fino alla prossima trilogia, naturalmente; ma la sequenza conclusiva si propone come epilogo di tutta la Skywalker Saga, oltre che del film. Andare oltre spetterà ad altri registi (oltre il viaggio dell’eroe e le simmetrie forzate? Verso una riforma dell’Ordine Jedi?); Rey si reca infine su Tatooine, pianeta desertico inviso tanto ad Anakin, che vi aveva trascorso un’infanzia di schiavitù, quanto a Luke, che non vedeva l’ora di abbandonarlo per arruolarsi nell’Accademia Imperiale. Però è su Tatooine che è cominciata tutta la storia, e lì deve finire; dopo aver seppellito le spade di Luke e Leia (con la loro benedizione), Rey si volta a guardare i due soli che tramontano su tutta la vicenda e avverte un tremito nella Forza: la nostalgia è spremuta, esaurita, non ce n’è più.
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